«Non cambia niente». Dagli spalti del centrosinistra è un coro. Zingaretti neppure aspetta la formalizzazione delle dimissioni di Di Maio: «Non avranno effetti sul governo». Conte chiude la lista, a sacrificio consumato: «Non ci sarà alcuna ripercussione sulla tenuta dell’esecutivo. Abbiamo tanti obiettivi da perseguire». In mezzo confermano un po’ tutti, incluso il diretto interessato: «Il governo deve proseguire». Reazioni ovvie, come quelle della destra che invece indica il fallimento e in qualche caso maramaldeggia paragonando Di Maio a Schettino, il capitano che abbandona la nave mentre affonda. Si distingue Salvini, che suona tutt’altra musica: «Non do colpe a Di Maio ma a Grillo, che per conservare le poltrone si è messo con il Pd. Ma gli elettori del M5s gliela stanno facendo pagare». L’invito rivolto agli elettori del M5S non potrebbe essere più esplicito. Ma quello indirizzato a Di Maio, destinato per ora almeno a cadere nel vuoto, è quasi altrettanto aperto.

MA È DAVVERO POSSIBILE che una scossa tellurica di queste dimensioni lasci imperturbato un governo che già poggia su terreno friabile? Ovviamente no. Però valutare le proporzioni della frana è impossibile: anche in questo caso molto, se non tutto, dipende dall’esito delle elezioni in Emilia-Romagna. Ma non c’è solo questo. È la stessa confusione generale che rende ardua ogni previsione. Non manca ad esempio chi, come il pentastellato D’Incà, si frega le mani convinto che le cose ora saranno più facili. In fondo non era proprio Di Maio il principale ostacolo nella marcia di avvicinamento fra M5S e Pd?

NON SONO CALCOLI CAMPATI per aria. Almeno sulla carta è davvero possibile che le cose vadano come si augura l’ala che mira all’alleanza con il Pd. Ma è un’ipotesi, se non impossibile, almeno improbabile. Prima di tutto perché Di Maio ha sin qui svolto il ruolo di argine e freno a una spinta centrifuga la cui potenza può essere valutata in pieno solo pensando al disastro di Roma, con 12 consiglieri pentastellati che votano contro la sindaca Raggi. Poi perché il passo indietro dell’ormai ex «capo politico» non implica affatto la sua resa o la scelta di rinunciare alla politica. Lo scontro interno al Movimento potrebbe diventare da domani, o meglio da lunedì prossimo, ancora più aspro e la corsa verso il precipizio più rapida.

MA IL GUAIO PRINCIPALE non è neppure questo. Il punto critico è che la maggioranza si troverà ad affrontare un momento decisivo, e forse drammatico, con il partito di maggioranza relativa in parlamento acefalo, senza leader né linea, probabilmente impegnato in una sorta di lunghissimo congresso permanente a mezzo stampa, tv e social: fino agli Stati generali di marzo solo per definire le regole, poi si entrerà nel vivo. È questa eventualità, molto vicina a una certezza, che terrorizza, dietro la finzione di una tranquillità inesistente, i partiti della maggioranza.

CERTO, LA GRAVITÀ di un situazione comunque molto instabile dipenderà dal voto di domenica. La sconfitta di Bonaccini in Emilia provocherebbe un’ondata di vero panico nel Pd. Il terrore di perdere, dopo la principale roccaforte, anche Toscana, Marche e Puglia dilagherebbe. Lo stesso Pd si troverebbe con un’anatra zoppa per segretario. L’esigenza di passare di corsa dall’alleanza per necessità, che in questi mesi ha mostrato tutta la propria inconsistenza, a un accordo strategico e quella di provare a ripartire subito con un accordo di programma molto ambizioso diventerebbero pregiudiziali.

MA UN M5S ALLO SBANDO, in attesa di decidere quale deve essere la sua identità, non potrebbe rispondere all’appello. In più, Renzi non mancherebbe di esigere il suo pedaggio: una sterzata netta nella linea politica e la testa di Giuseppe Conte. Non ci vuole molto a immaginare quale sarebbe l’effetto di una simile offensiva nel formicaio impazzito.

LA VITTORIA in Emilia Romagna rinfrancherebbe. L’effetto psicologico sarebbe notevole. Ma la rosa avrebbe comunque molte spine: perché in quel caso un M5S senza nessuno al volante dovrebbe fare i conti con le richieste imperiose del Pd, che chiederebbe di pesare nel governo molto di più, e con una rotta elettorale che certo non agevolerebbe il sereno dibattito tra i 5S.