In controtendenza con il suo momento di trasognante politica espositiva, la Galleria Nazionale di Roma ospita Konrad Mägi (1878-1925), una mostra (fino al 28 gennaio) di rigore critico curata da Eero Epner e dedicata al più importante pittore modernista estone. Nervoso, anarchico e sciamanico, accanito tabagista e grande consumatore di caffè, Mägi è stato fondamentale per lo sviluppo artistico della sua nazione, agendo da forza trainante di un contesto assolutamente periferico rispetto ai centri nevralgici delle avanguardie storiche. «L’epoca modernista giunse agli artisti estoni quasi dal vuoto, grazie all’influenza delle metropoli europee; non venne costruita su fondamenta preesistenti e nemmeno su terreno paludoso, ma piuttosto per aria. Rompere con la tradizione precedente era semplice: ogni azione rompeva con la tradizione, perché in precedenza non c’erano state semplicemente azioni. C’erano naturalmente singole opere d’arte, ma non c’era una tradizione nel senso di un complesso concettuale formato da molte singole azioni».
Nato nell’Estonia della fine del diciannovesimo secolo, Konrad Mägi trascorre la giovinezza a Tartu, seconda città del Paese ma luogo all’epoca deprimente per le velleità di un aspirante artista. Dovendo evadere da questo ambiente refrattario quando non ostile all’arte figurativa, Mägi decide di spostarsi a San Pietroburgo, dove entra finalmente in contatto con una realtà più acculturata e cosmopolita, e inizia a coltivare il sogno di visitare Parigi. Scrive in una lettera del 1906: «prima o poi bisogna andare a vedere il mondo, anche a costo della vita, perché non fa differenza come uno muore e dove muore». Alla fine del 1907 riesce a trasferirsi in Francia, ma l’esperienza tradisce le sue aspettative; è tormentato da problemi economici e di salute, dipinge poco. «Tutti i soldi che avevo, naturalmente pochi, se ne andavano per il tabacco e la carta (il tabacco è terribilmente caro e scadente) e non bastavano per comprare il materiale».
Così nell’estate del 1908 è in Norvegia, per un soggiorno che nelle intenzioni doveva essere di due mesi e invece dura due anni. Qui, nonostante la difficile sussistenza materiale, dipinge con assiduità, realizzando una serie di paesaggi che rivelano una chiara influenza post-impressionista, più nabis che fauves. Nel 1910 raggiunge la notorietà in patria grazie a una mostra a Tartu nell’ambito del movimento culturale della «Giovane Estonia». Il successo anche commerciale dell’esposizione gli consente di intraprendere in quello stesso anno un secondo e più lungo soggiorno parigino. Nel 1912, dopo aver esposto al Salon des Indépendants, rientra in Estonia; ancora afflitto da complicazioni di salute va a curarsi sull’isola di Saaremaa, nel mar Baltico, dove lavora con solerzia. Esegue molti quadri, sempre a tema paesaggistico: boschi, scogliere, specchi d’acqua e cieli densi di colori pastosi. Nel corso degli anni dieci la fama di Mägi in Estonia cresce considerevolmente, favorita anche dal dilagante sentimento nazionalistico che all’indomani della rivoluzione bolscevica porta alla dichiarazione d’indipendenza dalla Russia del 1918 e poi alla Guerra di liberazione (1918-’20). Nel 1919 partecipa all’apertura a Tartu di «Pallas», scuola d’arte di cui assume anche la direzione e da cui negli anni seguenti passano tutti i principali artisti estoni.
Nel 1921 è in Italia, a Roma, di cui adora il clima mite e la malinconica abbondanza di capolavori antichi e ruderi. Mägi «rimase fino alla fine della propria vita un uomo del Nord che avrebbe voluto vivere al Sud», scrive Epner nella corposa biografia da lui dedicata all’artista che affianca e integra il catalogo della mostra, avaro di testi e apparati. L’atmosfera romana sortisce effetti benefici sulla creatività del pittore che introduce nel suo repertorio la figura umana, fino ad allora trattata solo occasionalmente, e scorci urbani. «In una città ricolma di passato, Mägi cominciò all’improvviso a vedere anche il presente». Nel 1922 visita anche Capri e Venezia, dove trova nuova ispirazione e molti spunti. La mostra della Galleria Nazionale segue un filo cronologico che permette di constatare i progressi nello stile di Mägi, le evoluzioni della sua pennellata e nella scelta dei soggetti. Nelle tele degli anni venti la pittura di Mägi palesa curiosi quanto tardivi echi di Cézanne, per la riduzione geometrica dei volumi attraverso tasselli di colore.
Di nuovo in Estonia, le sue condizioni fisiche e psichiche degenerano in fretta e nel 1925 si spegne mentre è ricoverato in un sanatorio per malati di mente. In seguito, la pittura di Mägi, già amata in Estonia negli anni venti e trenta, ha subito la censura dei nazisti e poi del regime sovietico, trovando piena riabilitazione solo alla fine degli anni settanta, con il Disgelo. Tuttavia, oggi si conosce soltanto la metà della sua pur consistente produzione, che secondo le stime ammonterebbe a circa quattrocento opere. È un peccato.
Per Mägi l’arte può seguire la via della ragione, oppure la via dell’anima, cammino impervio che conduce sopra il precipizio. Ma «l’anima è un raro giorno di festa che né la coscienza né la logica possono spiegare. È la lode e la rivolta dell’umanità».