«Ora il vero è falso, almeno in arte e poesia». Potremmo partire da questa lapidaria asserzione, tratta dalle Nuits d’octobre, per parlare del Viaggio in Oriente, uno dei libri più affascinanti e compiuti di Gérard de Nerval, che le Edizioni Ares ripropongono nell’esauriente traduzione di Bruno Nacci (pp. 704, € 24,00). Innanzitutto una constatazione: non si capisce perché non si faccia riferimento, nella bibliografia e negli apparati, alla stessa versione apparsa nel 1997 in un sontuoso volume della collana einaudiana dei «Millenni», arricchito da una serie di splendide illustrazioni d’epoca (qui non riproposte), anche se privo dell’invito alla lettura di Giuseppe Conte. A parte ciò si tratta di un’iniziativa meritoria, tesa a far conoscere un’opera in cui convivono magistralmente realtà e fantasia, resa documentaria e finzione, assumendo a tratti una coloritura favolistica che sembra derivare dalle Mille e una notte (si pensi, in tal senso, alle versioni settecentesche allestite da Antoine Galland). La narrazione non segue un andamento lineare ma si dirama attraverso mille rivoli espressivi, spesso contaminati da suggestioni di taglio onirico, atti a privilegiare, quasi con casuale approssimazione, un filone tematico anziché un altro. Scrisse a tal proposito Gautier: «Nerval mette a nudo gli strumenti del caso e attribuisce all’atto più insignificante un’enorme importanza, perché un piccolo impulso può scuotere le remote propaggini del mondo degli spiriti e delle cose».
Lo scrittore si era recato in Oriente (Alessandria, il Cairo, Rodi, la Siria, Costantinopoli) tra il 1842 e il 1843, al fine di rimettersi dalla prima grave crisi di squilibrio mentale occorsagli nel febbraio 1841, a causa della quale iniziò il calvario dei ricoveri nella clinica del dottor Blanche, a Montmartre. Le prime anticipazioni apparvero tra il ’44 e il ’47 su rivista («L’Artiste» e «Revue des Deux Mondes»). Successivamente uscirono i due volumi di Scenes de la vie orientale con il sottotitolo Les Femmes du Caire presso Ferdinand Sartorius nel ’48 (il secondo dei quali, reimpaginato nel 1850 da Hyppolite Souverain, verrà modificato in Les Femmes du Liban). L’edizione definitiva del Voyage en Orient vide la luce da Charpentier in due tomi nel 1851.
Nella prima parte del libro viene descritto, in una forma che oscilla dal resoconto epistolare all’annotazione diaristica, il viaggio effettuato, qualche anno prima, dalla Svizzera delle «bellezze lacustri» alla patria di Goethe e Heine (dei quali tradusse rispettivamente le due versioni del Faust e alcuni canti) per approdare infine a Vienna, curiosamente definita «un assaggio dell’Oriente», dove l’autore trova modo di invaghirsi con estrema disinvoltura: ne consegue la descrizione di una carrellata di avventure sentimentali, di taglio rigorosamente platonico e non di rado macchiettistico, che conservano la freschezza di un’imagerie d’Épinal. Le figurine muliebri di Nerval si stagliano sulla pagina con una naturalezza che sconfinerà nell’episodio, in realtà mai avvenuto, dell’acquisto al Cairo di Zeynab, schiava giavanese, nonché dell’infatuazione per Salima, una ragazza drusa. Il paesaggio assume di volta in volta le forme più composite: piramidi, moschee, bazar, harem, fiumi, deserti, montagne roteano come dervisci sotto un cielo di marmo, innalzando la figura del flâneur a etnologo ante litteram, curioso di approfondire usanze e credenze religiose di drusi e maroniti, ma con l’occhio sempre rivolto ai mitologemi greci ed egizi (si pensi a un racconto come Isis che sembra anticipare quella peculiare forma di saggismo adottata da un estimatore d’eccezione quale Proust che rinvia a più riprese all’esperienza nervaliana nel Contre Sainte-Beuve).
Il dettato si dipana come un sogno a occhi aperti «nel paese delle chimere e delle allucinazioni» (Dumas), una rêverie in cui l’elemento fantastico predomina su quello documentario, delineandosi alla stregua di quegli equivoci che il frequente consumo di hascisc ingenera nei due personaggi principali della Storia del Califfo El-Hakim. È d’altronde paradigmatico che alcuni racconti si innervino nella trama variegata di questo Baedeker, configurandosi come una mise en abyme che, oltre alle vicissitudini citate del califfo e del suo doppio Yusef, si manifestano nell’articolata Storia della Regina del Mattino e di Solimano principe dei Geni. Osserva il curatore: «Con questo, che è l’ultimo dei grandi racconti mitologici del Voyage, Nerval raggiunge il momento più significativo della sua opera. Diverse sono le fonti utilizzate: dal racconto biblico (Libro Secondo delle Cronache) sulla costituzione del Tempio di Salomone (qui arabizzato in Solimano), al Corano, senza trascurare il Caino di Byron (1821) e il repertorio, sfruttatissimo anche altrove, della Bibliothèque orientale di Barthélemy d’Haberlot de Molainville (1697)».
Non è un caso che la Storia del Califfo El-Hakim sia infarcita di richiami multiformi che vanno dall’Hypnerotomachia Poliphili di Francesco Colonna, originariamente stampata nel 1499 da Manuzio a Venezia, all’ultima novella Franciscus Columna dell’amico Nodier, pubblicata postuma nel 1844. Si rivela così la temperie dell’immaginario nervaliano: dal sincretismo religioso al tema del doppio, dall’infatuazione platonica (le donne sono tutte avvenenti, non c’è mai un giudizio negativo sul loro aspetto e sul loro operato) al motivo mistagogico, sfociato nell’interesse per discipline esoteriche e massoniche. Asserisce Nacci nell’accurata introduzione: «L’Oriente di Nerval ha connotati decisamente femminili. Femminile è la sua ritrosia a essere accostato, il mistero di cui si ammanta, lo sfarzo della sua esteriorità. Ecco perché il viaggio in Oriente di Nerval è abitato da donne, e come la sfinge parla solo per enigmi. L’Oriente di Nerval è un grande corpo di donna, ricco di cavità da dove escono antichi incensi, altare di liturgia al cui centro la Grande Madre amministra ancora i fedeli immuni dalla barbarie teologica del cristianesimo e da quella, ancora più radicale, della scienza positivista». Il viaggiatore non è che una scintilla, una falena che volteggia intorno al bagliore di un universo scheggiato, formato da rovine di templi accatastate al fine di non rivelare «il sole nero della Malinconia», come si legge in El Desdichado, sonetto inaugurale delle Chimères. Viaggio come esorcismo dunque, intrapreso nel tentativo di riverberare all’infinito la propria immagine sfuggente, come in un gioco di specchi deformanti, che abbisogna del travestimento da arabo, da commerciante armeno e del ricorso a un doppio di matrice hoffmanniana per trovare (o perdere) la propria reale identità tramite una messinscena teatrale dai tratti crudelmente allusivi. Questa sorta di Occidente rovesciato altro non è che quella «descente aux enfers» con cui si conclude l’avvitamento nel delirio rappresentato da Aurélia, quel girovagare fra i meandri dell’inconscio come nei bassifondi parigini con il filo d’Arianna delle fogge più stravaganti (portando magari a spasso un gambero legato a un nastro azzurro), prima di appendersi a una grata della rue de la Vieille-Lanterne.
L’Oriente di Nerval si pone tra quello di Chateaubriand e Lamartine (anticipando di pochi anni il viaggio compiuto da Maxime du Camp e Flaubert che pone le basi all’esotismo estenuato di Salammbô, avente un corrispettivo pittorico in certi esiti lambiccati di Moreau) e quello, virtuale ed esaltato, di Daumal e Artaud, che contrappone i riti magici del primitivismo all’inautenticità di stampo occidentale attraverso lo studio del sanscrito o la scoperta del teatro balinese. Nerval è ustionato dal «fuoco» di quel logos e le sue «figlie» sono già le filles de cœur à naître di artaudiana memoria. Doveva soccombere come un «suicidato della società» chi era, secondo l’espressione dello stesso Artaud, «insorto contro la monarchia degli dèi».