Una biografia di Pablo Neruda, poeta cileno, senatore comunista, ricercato politico, non può che contenere tre generi, e il film che la mette in scena non può essere che tre volte «po» – come amava dire Godard: poetico, politico, poliziesco. Ma queste tre dimensioni vanno bene insieme? Si aiutano a vicenda o si mettono piuttosto i bastoni tra le ruote?

A giudicare dall’ultimo film di Pablo Larrain… Entrambe le cose. Andiamo per ordine. Nella prima parte, il film mette in scena il poeta. Siamo negli anni 1950. Il Cile, scosso da un’aspra lotta di classe, è in rapida via di fascistizzazione. Le organizzazioni politiche e sindacali della sinistra sono messe al bando, i militanti vengono arrestati e internati in campi di concentramento. Ma nella splendida casa di Neruda, le leggi del materialismo storico sembrano sospese. Ogni sera, il poeta invita l’élite cilena al suo simposio, e, tra un travestimento e un canto, fa rivivere il meglio degli anni ruggenti del cinema americano e della scena artistica parigina.

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Ora, questo Lazzaro dai gusti sofisticati e cosmopoliti è anche un senatore comunista. Senatore di un partito che è ancora inquadrato da solidi principi staliniani, implicato in una battaglia nella quale due superlativi si affrontano: un proletariato poverissimo, un’alta borghesia ferocissima. Tra questi due mondi non c’è nulla. Ed è chiaro che il figlio del ferroviere, diventato poeta di fama mondiale, sposato ad un’artista che ne ha completato l’educazione raffinandone il gusto, è più a suo agio con la borghesia che con il popolo. Perché il poeta ha scelto il proletariato ? In che modo la sua ricerca del bello incontra il problema del giusto? E, soprattutto, come può il cinema appropriarsi di queste domande, mettersi al loro livello e non limitarsi a servirle già cotte, come accade di solito (soprattutto nel cinema andino).

Invece di provare a sbrogliare la matassa, di per sé già complessa, del bello e del giusto, Larrain sceglie di aggiungere un terzo ingrediente all’intreccio: l’inchiesta giudiziaria, ovvero il gustoso, il puro svago. Ecco che inventa un personaggio, un giovane ispettore, che il Presidente cileno mette alle calcagna del poeta. Anche qui, si tratta di essere fedeli alla biografia: a don Pablo, oltre all’alta poesia e alla militanza politica, garbavano i gialli. Ma non si tratta solo di un dettaglio biografico. Con il gustoso o lo svago, Larrain cerca di interpretare la scelta di vita del poeta e del politico. Abbastanza presto ci si rende conto che l’ispettore è una sorta di alter ego di Neruda. Anch’egli è figlio di proletari (la madre era una prostituta). Anch’egli si è fatto strada e si è inventato una maschera. Non è più un bastardo, non è un figlio di nessuno. Ma, contrariamente al poeta, il poliziotto ha scelto di mettersi con i padroni. Neruda e il suo ispettore sono in effetti due vite diverse di una stessa persona. Neruda è allora meno un biopic che un curioso intruglio di elementi diversi, di immagini irrequiete. Nella fase finale il film si spossessa e arriva a sposare una forma apertamente irrazionale.

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Che cosa tiene insieme il tutto? Tanto per cominciare, non è certo che il tutto, vale a dire il film, tenga. Neruda ha il merito di far apparire una questione complessa, in cui l’arte è chiamata due volte in causa nel suo rapporto con la politica. Come può la poesia incontrare il linguaggio della politica. E come può il cinema mettere in scena, con il suo proprio linguaggio, gli altri due? Ma non è detto che Larrain abbia trovato la forma giusta. Di certo, meno che nei tre film precedenti: Tony Manero, che lo aveva fatto scoprire, sempre alla Quinzaine, otto anni fa; seguito da Post Mortem e da No.

Neruda è meno leggero del primo. Meno grave del secondo. Meno preciso del terzo. Però c’è un’idea, che il film insegue, cerca di esporre, trova in alcuni punti e poi abbandona per strada: la voce del poeta. È nella voce del poeta, che non è una voce naturale, che i tre linguaggi potrebbero trovare una forma. La stessa voce che seduce le masse, inquieta i padroni, crea il proprio altro che indaga su di sé. L’idea è bella. Ma appena sussurrata.