Stasera c’è la prima delle due serate La celluloide e il marmo a cura di Alessandra Vanzi, attrice, regista, performer, per rendere omaggio alla madre, Giannina Angioletti, e al suo compagno, Alberto Grifi. “Mia madre ha fatto mille cose nella sua vita”, racconta Alessandra al telefono, “poetessa, pittrice, gallerista, vivendo a Roma, dopo aver viaggiato molto da ragazza con suo padre, scrittore a sua volta, tra Praga, Parigi, Italia e la Svizzera nel periodo della seconda guerra mondiale”. Stabilitasi nella capitale a guerra finita, Giannina si era iscritta al Centro sperimentale di cinematografia per studiare recitazione, benché poi non abbia mai fatto il mestiere di attrice. L’unica sua apparizione è registrata in un corto di Valerio Zurlini, Trastevere, in cui lei compare nel ruolo di Virgilio che attraversa il quartiere romano, poi incontra Valerio, lo stesso regista entrato in campo, per incamminarsi assieme lungo le rive del Tevere, come una giovane coppia di innamorati.

“Sergio Germani ha deciso di proiettare il corto al suo Mille Occhi e con Patrizia Bettini, mia compagna di lavoro da tanti anni, abbiamo elaborato una performance da fare dopo la proiezione, dove sulle duecento fotografie da me selezionate tra tantissime scattate nel corso della sua lunga vita (è morta due anni fa, ndr), proiettate sullo schermo, Patrizia recita e canta alcune delle poesie scritte da mia mamma”, spiega con voce emozionata l’attrice, parlandomi dalla sua casa di Roma. Lei, che lavora in teatro sin dal 1976, quando assieme a Marco Solari e Giorgio Barberio Corsetti aveva creato La Gaia Scienza, il gruppo teatrale più in nel periodo della “nuova spettacolarità” assieme a Falso Movimento guidato da Mario Martone, e che dal 1985 fa parte dell’ensemble Solari-Vanzi nella veste di autrice e attrice. Nel cinema ha prestato corpo e volto a numerosi personaggi femminili in pellicole firmate, tra le altre, da Bernardo Bertolucci, Jane Campion e Alberto Grifi.

Domenica 14 settembre sarà la volta di Urla mute, film ideato scritto e messo in scena dalla stessa Alessandra Vanzi, con riprese e montaggio di Grifi, ben noto per la sua ampia opera di sperimentazione filmica e tecnica. Urla mute era nato nel 2002 in occasione della prima edizione di Le opere e i giorni, a cura di Achille Bonito Oliva, un festival sopravvissuto per quattro anni, con sede nella Certosa di San Lorenzo di Padula, straordinario convento per monaci di clausura con spazi di gran lusso e grande cura. “Era la dimora per i figli cadetti di famiglie nobili che non avevano né ereditato il titolo né le carte per altre carriere, per cui fu usanza mandarli in quel convento le cui celle erano veri e propri appartamenti, con più camere disposte su due piani e un giardino privato. A noi artisti ne avevano messi a disposizione undici su diciotto in totale, per un mese, periodo in cui si doveva pensare e realizzare un’opera che sarebbe rimasta al convento per un anno”.

Dopo un primo tempo di ambientazione erano nati quattro personaggi femminili, ognuno abitava uno spazio dell’appartamento, e le urla mute del titolo si rifanno all’aver voluto dar voce a chi non ce l’aveva.

Il film era nato dalla collaborazione, Vanzi aveva curato testi, messinscena e performance, Grifi si era improvvisato scenografo, e ha realizzato le riprese “da disporre non solo nell’usuale scorrere del tempo di montaggio, ma piuttosto per scavare nella profondità di ogni inquadratura e rendere visibile l’affollarsi e il coesistere contraddittorio dei differenti sensi di narrazione”, come lui stesso aveva scritto sul catalogo del festival. Per un linguaggio tipicamente grifiano che smonta ogni identificazione o dominante di senso a favore del plurisemico, nelle e tra le immagini, che si vedranno a Trieste per la seconda volta su grande schermo, come un flusso di pensiero accompagnato da interventi sonori dal vivo, improvvisati da Alessandra Vanzi proprio come fu fatto la prima volta, quando fu visto per intero al Teatro Furio Camillo di Roma, nel 2003. Gli ottanta minuti sono composti da quattro episodi: il primo narra di una prostituta africana, con testi di Antonio Moresco che affrontano tutti gli aspetti della cosiddetta “tratta”, lette in campo mentre lei, o meglio Vanzi, si prepara per recarsi sul marciapiede, osservata dallo spioncino, per fare del pubblico l’occhio voyeur.

Il secondo riguarda l’ultima giornata della prima donna palestinese che si era fatta saltare in aria. “Era infermiera e non ce la faceva più a raccogliere i brandelli dei corpi di bimbi lacerati dagli attacchi continui dell’esercito israeliano”, dice ancora Alessandra, mentre il terzo parla di donne afghane, dove lei ne interpreta una, giunta in Italia, mentre altre narrano esperienze di vita in brani di documentari raccolti da Grifi e inseriti nel montaggio. La quarta e ultima parte fu girata a Roma, a casa sua, perché nei venti giorni passati a Padula non erano riusciti a finire il progetto visuale, benché fosse stato costruito per intero teatralmente. Qui Alessandra veste i panni di una donna borghese, bulimica, che mangia forsennatamente davanti al televisore mentre guarda programmi su diete dimagranti. Tutto d’un quel flusso visivo si interrompe, appare il busto di George Bush, padre, per annunciare la prima guerra del golfo con un discorso patriottico e autoritario. “L’idea di usare quello spezzone fu di Alberto”, precisa Vanzi e lascia in sospeso il finale. Di sicuro l’impatto sarà forte, anche dodici anni dopo.