Nei sondaggi che già appassionano militanti e sostenitori del Partito democratico è incredibilmente al terzo posto, insidiando nomi superconosciuti di politici supersperimentati, come Joe Biden, Bernie Sanders ma anche l’astro nascente Beto O’Rourke.

Nelle ricerche di Google supera senatrici note come Elizabeth Warren e Kamala Harris. Politico locale fino a ieri ignoto ai più, ha un cognome davvero impronunciabile. Anche chi non sa l’inglese, vedendo la parte iniziale dell’ultimo divertentissimo siparietto del comedian Trevor Noah, capirà l’imbarazzo di conduttori e analisti politici che balbettano e inciampano nel dire il cognome del trentasettenne Pete Buttigieg, sindaco della sua città natale, South Bend, in Indiana. La nuova star della politica americana dice: chiamatemi Mayor Pete, sindaco Pete. Boot-edge-edge (Butgege), a ogni buon conto, è la pronuncia che l’interessato consiglia.

L’IMPROVVISA ASCESA di Mayor Pete è l’ennesima smentita di un assunto che sembrava uno dei punti inossidabili nei libri di testo degli strateghi delle campagne elettorali: il vantaggio del name recognition. Avere un cognome riconoscibile è un punto di forza a favore rilevante, per un candidato che lo abbia rispetto a concorrenti esordienti o con nomi complicati o troppo «etnici».

SIAMO NELL’EPOCA degli outsider, che è anche l’epoca della crisi evidente dell’egemonia bianca anglosassone e protestante nella società americana. E vanno forte personaggi come Pete Buttigieg e come Alexandria Ocasio-Cortez, (AOC) perché i loro nomi raccontano storie di un’America che già nel 2008 dimostrò come i rapporti di forza demografici, e democratici, si stessero spostando a favore dei «nuovi americani», con l’elezione di un figlio di un immigrato dal Kenya. Una sfida alla cultura bianca anglosassone protestante, ma anche all’establishment che ne rifletteva gli interessi politici.

L’ELEZIONE DI TRUMP – e disgraziatamente anche la sua più che possibile rielezione nel 2020 – non smentisce quei trend, ma ci parla di un’America in preda a un conflitto estremo tra parti demografiche che la compongono, un conflitto che l’amministrazione Obama aveva cercato con forza di elaborare in chiave positiva – la diversità che è ricchezza – e che il suo successore invece interpreta e cavalca in modo opposto. Come la rivalsa dei bianchi. Ma personaggi come Mayor Pete, figlio di un immigrato maltese, una nonna di nome Maria Concetta, o come AOC, come Ilhan Omar, come Rashida Tlaib – i nuovi volti Democrat della riconquistata maggioranza alla camera – raccontano storie che trascendono il semplice cambiamento del paesaggio demografico americano e lo colorano di inedite tinte culturali e politiche.

SOUTH BEND, LA CITTÀ amministrata da Pete, da quando non aveva neppure compiuto trent’anni, si trova nell’Indiana. Prima di diventare il numero due di Trump, Mike Pence ne era il governatore. Uno stato conservatore, uno degli stati della ruggine – la deindustrializzazione – dove cova il risentimento bianco e dove prospera il bigottismo cristiano di cui Pence è la massima espressione politica e che è il nutrimento ideologico della base elettorale di Trump.

CRESCERE IN UNA REALTÀ così, ragazzo gay, non deve essere stato facile. E dà la misura della forza di Pete e, oggi, della sua determinazione a sfidare candidati di alto lignaggio politico per la nomination democratica.

D’altra parte proprio la sua esperienza di sindaco di una cittadina di centomila abitanti, nel bel mezzo dell’America profonda, l’autorizza a pensare in grande. Poco prima di correre per il secondo mandato di sindaco fece una cosa, anche questa, contraria alle regole del bravo stratega politico: in un articolo per il giornale locale, il South Bend Tribune, dichiarò la sua omosessualità. Risultato: ottenne l’ottanta per cento dei voti, più della prima volta. E perché no? South Bend, città simbolo dell’età industriale americana, con lo stabilimento dove si produceva la Studebaker, oggi un museo della gloriosa automobile, era ridotta a figurare nel 2010 tra le cento città moribonde, secondo la macabra lista di Newsweek.

CON LA GESTIONE BUTTIGIEG si è assistito alla rinascita della città, che adesso si candida a diventare la Silicon Prairie, la Silicon della prateria. Non che sia uscita dal tunnel. Ma si vede finalmente la luce. Un ambizioso piano di edilizia sociale – mille case in mille giorni – ha portato alla creazione di nuove abitazioni rinnovando, demolendo e ricostruendo case abbandonate. Vecchi edifici automobilistici sono stati restaurati per essere riutilizzati come spazi comuni. Il tratto di fiume St. Jospeh che l’attraversa è un’installazione pubblica d’arte che attira visitatori e rende orgogliosi gli abitanti.

PETE, È DIFFICILE COLLOCARLO negli schemi conosciuti. Poliglotta, oltre al maltese del padre, se la cava con l’italiano, l’arabo, il francese, il norvegese, lo spagnolo, il dari, la lingua persiana parlata in Afghanistan.

Perché l’Afghanistan, Pete lo conosce bene. E qui s’arriva a un altro punto della sua biografia, che unito a diversi altri, ci propone un profilo del personaggio che sfida le pigrizie intellettuali delle solite etichette e delle classificazioni giornalistiche. Se mai sarà eletto nel novembre 2020, Buttigieg sarà il primo presidente gay, sarà il primo Millennial alla Casa Bianca ma sarà anche il primo presidente dopo George Herbert Bush – e se ne vanta – ad avere indossato la divisa (in marina) e ad aver una certa esperienza militare.

Poliglotta, cosmopolita, laurea magna cum laude a Harvard, amante di James Joyce, un buon talento musicale con piano e chitarra: un personaggio così nell’America dove bere vino invece che birra è segno di pericoloso antipatriottismo?

PETE IN REALTÀ sI proclama «prodotto» tipico di questa terra. Soprattutto nel suo essere pragmatico. Un pragmatic progressist. Non certo nel senso – di nuovo – che si dà in genere a sinistra a questa connotazione. Lo spiega lui stesso in un incontro con David Smith del Guardian: «Parte della mia esperienza di sindaco mi fa dire che un approccio molto pragmatico ti conduce in direzioni che talvolta possono apparire centriste e altre volte molto di sinistra, ed è così seguendo i fatti e i dati dove conducono».

L’INVIATO DEL GUARDIAN osserva l’arredamento dell’ufficio del sindaco e nota il frammento di una pietra azzurra, ricordo di una missione in Iraq come consigliere civile. Scolpita, una scritta in arabo: «Non è perché vai a cavallo sei un cavaliere». Per ricordare a se stesso, spiega al giornalista, che «siccome hai una carica o un titolo, non significa niente se non ne fai qualcosa».

DI RECENTE, a fine gennaio, Pete ha dovuto affrontare una delle prove più dure della vita, la morte del padre Joseph, settantunenne, marxista, tra i massimi studiosi di Antonio Gramsci e traduttore esimio dei Quaderni su incarico di Edward Said. Di lui, nella sua recente autobiografia, Shortest Way Home, Pete parla poco, ricorda i discorsi a tavola con la madre in cui si parlava di amici come Eric Hobsbwam, ma ricorda soprattutto la figura del genitore affettuoso, fan dei Credence Clearwater Revival, capace di stargli vicino nel momento delicato del suo «outing» gay.