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Neri Parenti, nella gabbia dorata

Neri Parenti, nella gabbia dorata

Intervista I film campioni di incasso, i cult, le collaborazioni felici e quelle non riuscite: il regista si racconta in occasione del premio alla carriera conferitogli a Ischia

Pubblicato circa un mese faEdizione del 17 agosto 2024

Autore prolifico della commedia nazionalpopolare (da Fantozzi ai cinepanettoni), Neri Parenti ha fatto della gag catastrofica e deflagrante il leitmotiv del suo cinema. Ricompensato puntualmente dal pubblico, il regista è stato ospite all’Ischia Film Festival (29 giugno – 6 luglio), dove ha ricevuto il Premio alla carriera. L’abbiamo intervistato in questa occasione.

Stefania Sandrelli disse che questi premi non sono da considerarsi funerei, ma che sono un modo per confermare l’anzianità di servizio. Cosa ne pensa?
Comincio a riceverne un po’ troppi, di premi alla carriera (ride). Ma sono sempre meglio di quelli alla memoria. Danno un po’ l’idea di fine, anche se continuo ad essere operativo, naturalmente non più come un tempo.

La sua filmografia è composta da più di 40 titoli, tra cui diversi campioni d’incassi. La critica, però, si è sempre dimostrata severa, talvolta violenta nelle stroncature. Ne ha sofferto?
No, mi è sempre bastato il riscontro del pubblico. Poi, il tempo rimette tutto a posto. Quando facevo i Fantozzi, la critica dell’epoca scriveva qualsiasi cosa; oggi sono diventati dei cult, li ripresentano ai festival, scrivono libri, fanno documentari… Lo stesso avviene per la saga dei cinepanettoni, che continua a sopravvivere coi passaggi televisivi. Nonostante le stroncature, questi prodotti sono rimasti nell’immaginario collettivo e sono conosciuti anche dalle nuove generazioni.

Ha avuto modo di lavorare con grandi nomi, penso a Monica Vitti, a Enrico Maria Salerno, ad Alida Valli…
Con Vitti facevo l’aiuto di Steno in Amori miei. Era una bravissima attrice con un po’ di fisime. Aveva nei contratti una clausola dove specificava che nei primi piani doveva guardare sempre alla sinistra della macchina da presa, secondo lei era la sua parte migliore. Ogni mattina Steno e io dovevamo studiare le inquadrature per riuscire a portarla a guardare in quella direzione. Salerno, al suo primo giorno di set, inciampò nella scaletta della roulotte e si fece un taglio sulla destra della fronte. Per cui pure lui doveva guardare a sinistra della mdp (ride)… il povero Steno batteva i piedi per terra. Quando Salerno girò poi con me i due Scuola di ladri, si divertì, non pensava affatto di scalfire la sua carriera. Alida Valli, invece, fece una piccola parte in Sogni mostruosamente proibiti. Stavamo girando con lei una scena, in via Piccolomini a Roma, davanti a un portone. Ad un certo punto uscì un signore incazzato nero sbraitando: «Sono il generale tal dei tali, qui non potete stare, vi caccio tutti!». Poi, vide Alida Valli, la raggiunse e si mise in ginocchio davanti a lei: «Ho sempre sognato d’incontrarla, la donna più bella del mondo! Fate quello che volete, state quanto volete» (risata).

Tutti le chiedono di Paolo Villaggio mentre ha lavorato pure con Renato Pozzetto…
Il nostro non fu un rapporto semplice, soprattutto durante la trilogia delle Comiche, tant’è che quando gli chiesero quale film della sua carriera avrebbe cancellato rispose questi. Erano dei lavori molto distanti dal suo modo di ragionare, non si sentiva a suo agio in quanto le storie erano quasi mute e si puntava su gag fisiche. In film totalmente demenziali, Pozzetto era ancorato a delle logiche molto rigide. Gli piaceva, però, stare in compagnia di Villaggio.

A tal proposito, Isabella Ferrari ha chiesto pubblicamente scusa per aver rinnegato i primi film di carriera.
Con Isabella ho fatto solo Fracchia contro Dracula. Non credo, però, che questo l’abbia rinnegato (risata). Era un cambio di ruolo per lei, perché dopo Sapore di mare faceva sempre la ragazzina innamorata, mentre in Fracchia contro Dracula è una sorta di Indiana Jones al femminile. A parte Pozzetto, non mi pare che altri abbiano fatto mea culpa per qualche mio film.

E con Ania Pieroni come andò?
Andò male (ride), ma perché a quei tempi era raccomandatissima. Mi chiamò il produttore: «Si deve prendere questa Ania Pieroni, non ti dico altro». Per fare la vampira era anche adeguata di viso, bellissimo, con questi occhi verdi… Il problema era il fisico, per il personaggio risultava un po’ anomalo. C’inventammo una stanza alla rovescia, dove lei sembrava stesa nella bara sul pavimento; in realtà, era appoggiata al muro, così divenne molto più magra. Comunque, era una pessima attrice. Volevamo doppiarla, ma pretese di farlo lei stessa Il primo anello lo ripetemmo, credo, ottanta volte. Non fece una piega: «Non importa, andiamo avanti finché non viene bene». Era molto determinata.

Massimo Boldi ha dichiarato che «In vacanza su Marte» non faceva ridere e che la trama deve avere un minimo di verità per funzionare.
Sì sì, ho letto questa dichiarazione. Be’, poteva non farla. Oltretutto è un soggetto che ho ereditato da Guaglianone, non l’ho creato io. Questo film, probabilmente, non l’avrei fatto, ma non per le ragioni di Boldi. In Italia non hai i mezzi degli americani, pochi soldi e poco Marte. E poi non è uscito in sala, solo in piattaforma, quindi non si sa come sarebbe potuto andare con gli incassi.

Con i fratelli Vanzina ed Enrico Oldoini avete dominato la commedia per oltre un ventennio. Eravate dei «buoni vicini» di genere?
Il rapporto con i Vanzina parte da lontano perché appunto ero l’aiuto di loro padre Steno. Ci siamo poi messi a fare lo stesso genere con due scuderie diverse. Ad un certo punto litigai con Cecchi Gori, mentre i Vanzina volevano creare una loro produzione con De Laurentiis; così, arrivammo a un accordo dove ogni anni ci alternavamo Carlo e io alla regia del film di Natale. La scrittura, invece, la facevamo sempre assieme a Enrico. Una volta un critico, non ricordo chi, scrisse: «Carlo Vanzina guarda dal buco della serratura, Neri Parenti sfonda la porta» (risata), un’annotazione ben studiata. Con Oldoini non ho mai lavorato, ho raccolto però la sua eredità quando iniziai con De Laurentiis.

La commedia, da sempre, è la sua zona di comfort.
Quando mi trovavo in Sudafrica per Piedone l’africano, con la regia di Steno, ci fu un’emergenza e bisognava mettere su una seconda unità in poco tempo per girare quasi metà film. Steno propose di affidarla a me. A quanto pare lavorai così bene che Goffredo Lombardo decise di fare una parodia di La febbre del sabato sera; trovarono un sosia di John Travolta, impressionante, era un cuoco di Venezia. Mi chiamarono per dirigere questo filmettino, John Travolto… da un insolito destino, una schifezza, ‘sto cuoco doveva pure ballare, vabbè. Lo migliorai un po’ convincendo il mio amico Flavio Bucci, voce italiana di Travolta, a doppiare il protagonista, recitando bene e non come un menù. Il film uscì lo stesso giorno di Figlio delle stelle di Carlo Vanzina, con Alan Sorrenti. All’epoca non c’era Cinetel, di solito il regista andava fuori da una delle sale per capire l’affluenza. I nostri film venivano proiettati a Roma in due cinema vicini, Carlo e io ci ritrovammo seduti su una panchina di viale Giulio Cesare (ride). Non c’era nessuno finché, ad un certo punto, per il mio film entrarono una ventina di coreani, convinti fosse col Travolta vero. Fu la mia fortuna perché venne poi venduto in tutto il mondo, Lombardo guadagnò cifre astronomiche e, grato per tutto ciò, propose me per fare la coregia di Fantozzi contro tutti assieme a Villaggio. Da quel momento non sono più uscito dalla gabbia della commedia. Ma non lo dico con lamento, era una gabbia dorata. Un po’ croce, un po’ delizia.

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