A volte ci chiedevamo se il «viaggio all’Eden», come qualcuno aveva ribattezzato la rotta di hippie e frikkettoni degli anni Settanta, fosse un percorso che menava in India o a Kathmandu. In effetti la città nepalese era l’ultima stazione del viaggio eppure nessuno dei Paesi attraversati aveva il fascino, la forza, la complessità dell’India, un continente più che una nazione. Kathmandu però, città-palazzo di una monarchia fortemente tradizionalista quanto restia al cambiamento, aveva un fascino a sé del tutto particolare in un Paese di rara bellezza naturalistica, dove la mano dell’uomo aveva plasmato piccoli villaggi che sembravano usciti da una favola e una capitale che, anticipando il mondo architettonico sinotibetano e miscelandolo con la cultura indù, era una mescolanza di stili che avevano alimentato una qualità artigianale di estrema raffinatezza.

Inoltre il Nepal, stato cuscinetto tra l’Impero di mezzo e la grande Unione indiana, aveva un discreto segmento di popolazione tibetana e ne aveva raccolto e assimilato pezzi di tradizione nel substrato prevalentemente indiano di questo piccolo regno fuori dal mondo (la maggioranza è induista). Il Nepal godeva del suo status privilegiato di cuscinetto geopolitico per restare fermo nel tempo con tutto quel che ne consegue: una staticità che ne aveva preservato le bellezze naturali e architettoniche tanto quanto la longevità di una monarchia assoluta e autoreferenziale.

L’arrivo a Shangri-La avveniva in autobus, con vecchi Tata indiani scalcinati o semplicemente camion che avevano assemblato rudimentali sedili nel cassone. Ancora buio, si inerpicavano da Birganji sino alla capitale dove si arrivava al mattino presto. Scendendo da un valico nella verdissima valle di Kathmandu si vedevano emergere nella fine nebbia mattutina i contorni stilizzati dei grandi templi di Durbar Square che, con grande sorpresa, esibivano i profili di costruzioni a pagoda che in diecimila chilometri di strada non avevamo mai visto. Oggi questo colpo d’occhio è impossibile. La piccola città che faceva qualche centinaio di migliaia di anime è un centro urbano smisurato che arriva a 2 milioni, ingigantito non solo dallo sviluppo demografico ma dall’insicurezza di oltre due lustri di guerra civile. Unico vero centro urbano del Nepal, Kathmandu ha accolto frotte di profughi in fuga dalle campagne dove al flagello di alluvioni e valanghe si era aggiunta l’incertezza connaturata alla guerra che un partito maoista sui generis ha menato, sino alla vittoria, contro un’inossidabile monarchia durata 240 anni (e abolita nel 2008), giunta ormai al suo ultimo atto tra congiure di palazzo e inutili resistenze al cambiamento.

Il pianeta del Viaggio all’Eden aveva ovviamente eletto domicilio nella parte più bella della città ossia il centro storico di Durbar Square, dove era rapidamente nata una vera e propria congregazione di hotelier che avevano colonizzato un’intera via popolata di Lodge e ristorantini e che era stata ribattezzata «Freak Street», nome che oggi porta ancora. La maggior parte dei viaggiatori stazionava qui, assaporando torte di cioccolato e crema impreziosite, su richiesta, di un’aggiunta di hashish, componente non solo gastronomica che si trovava con grande facilità. [do action=”citazione”]I più freak tra i freak, quelli che già allora «…mica si può abitare in città», sceglievano invece i dintorni come il tempio di Swayambhu, che distava una manciata di minuti dal centro città lungo una strada che attraversava un piccolo Gange nel quale venivano gettati i resti dei cadaveri abbrustoliti sulle pile mortuarie rituali. La zona era popolata di scimmie dispettose, poco educate e più abili di un borseggiatore, che hanno conservato la tradizione di abitare colà.[/do]

Per alcuni Kathmandu era davvero la fine del viaggio. Questo Paese di elfi (i nepalesi sono di statura piuttosto bassa e quasi tutti portavano e portano un piccolo fez floscio di stoffa che dà loro l’aria di minuti affascinanti gnomi) era l’ultima tappa e già bisognava fare i conti per il rientro. I più fortunati avevano un biglietto da Delhi verso casa, la maggior parte però doveva fare il percorso a ritroso. Uno di loro, uno scozzese un po’ sprovveduto, una mattina si accorge che il suo passaporto è sparito. Rovina, disastro, sciagura. Ottenerne uno nuovo poteva essere un problema e molto spesso l’ambasciata ti rilasciava al più un foglio di viaggio che però comprendeva solo un tragitto via terra ben definito. Addio avventura.

Il passaporto riemerge una sera nel racconto di un connazionale che, anch’egli senza libretto perché scappato dall’Italia per evitare la leva, lo ha magicamente sottratto allo scozzese durante una febbricitante diarrea del britannico. La vicenda suscita un gran vespaio: le regole non scritte del freak imponevano che si chiudesse un occhio sulle faccende «legali» ma le stesse regole dicevano che agli amici di viaggio non si sottrae nemmeno uno spillo. Il passaporto tornò allo scozzese e l’italiano si incamminò senza carte verso il confine indiano a rischio di finire in gabbia.

Una storia che ci ha tormentato per anni e che era lo specchio della realtà a duplice-triplice binario che vivevamo, in una comunità che regole non ne aveva ma che non mancava di allinearsi a qualche atavico principio.
Il Nepal, Paese di nevi perenni, imponeva anche un faticoso trekking. Non farlo significava essere davvero poco «in» e dunque era necessario partire per Pokhara, amena località affacciata su un quieto laghetto ai piedi dell’Annapurna, per poi accingersi alla camminata rituale che prevedeva, per i più ricchi, la guida di uno sherpa, un selvatico montanaro locale che dava il ritmo e portava i bagagli. Pokhara divenne poi un’area di influenza maoista anche se i guerriglieri, che non avevano nessuna intenzione di danneggiare i turisti, si tenevano a distanza dalla piccola cittadina cresciuta nel tempo a dismisura e, con l’avvento della guerra, trasformatasi in una cittadella fortificata con sempre meno fascino e sempre più turisti da viaggio organizzato.

La storia del movimento maoista meriterebbe ben più che poche righe ma allora non c’era traccia della benché minima propensione alla ribellione. Il re usciva da palazzo coi sui macchinoni e si pavoneggiava in un Paese tanto bello quanto povero, misero e ignorante. I nepalesi vivevano come schiavi moderni senza che noi, ammaliati dalla magia di Shangri-La, ce ne rendessimo conto. Cosa avrebbero detto contadini e protomaositi nepalesi a sapere che, soprattutto noi italiani, eravamo «compagni»? Meglio forse che non lo abbiano saputo.

Naturalmente non eravamo ciechi. Semmai distratti. Non abbastanza da non accorgerci che Kathmandu, come nessun altro posto sin qui visitato, pullulava di bambini che vivevano in strada: piccoli straccioni con un perenne moccio al naso, sporchi all’inverosimile e sempre in cerca di qualche rupia. Ma l’India, che ci aveva vaccinato con una dose incommensurabile di storpi, poliomielitici, lebbrosi e mutilati, ci aveva reso di un certo cinismo. Anche perché se appena cedevi, che so invitando a cena un ragazzino, ne arrivavano a frotte e quello ti si attaccava ai vestiti senza mollarti se non sull’uscio dell’albergo. Nella magica Shangrila, ultima tappa del Viaggio all’Eden, la miseria umana – la loro e la nostra – mostrava la sua faccia cruda anche al viaggiatore più navigato. I volti di quei bambini senza famiglia accompagnavano i nostri incubi notturni e molto probabilmente, e con maggior successo, quello dei giovani maoisti che nel 1996 abbracciarono la lotta armata.

La spensierata vita della banda dell’Eden oggi non è più cosa a Kathmandu. I piccoli villaggi di Patan e Bhadgaon, la cui distanza dal centro si copriva con una gita su una bicicletta cinese, sono oggi parte integrante di una città che va perdendo la sua identità. Qualche anno fa un nepalese che deve amare molto il suo Paese, è andato in giro per discariche a recuperare tutte le porte e le finestre di legno che ha trovato: intarsi pregiatissimi che abbellivano i palazzi ma anche piccoli tuguri del centro. La modernità, con tutto il bene e tutto il male che la accompagna, ne aveva fatto legna da ardere e aveva sostituito le antiche travi di legno himalayano con pilastrini di cemento armato. Quel nepalese ne ha fatto un albergo di lusso che riecheggia l’antico splendore dei palazzi che ora si possono vedere solo a Durbar Square, soffocati da un mare di cemento – ma anche fogne e acqua in casa – che avanza inesorabile. Se siete stati a Kathmandu negli anni Settanta, fate a meno di tornarci. Nessun posto è forse cambiato così tanto. Nessuna magia si è forse dissolta così rapidamente.

Ormai era il tempo dei saluti e forse anche noi dovremmo reciprocamente congedarci. A Kathmandu friniva il Viaggio all’Eden e cominciava la strada del ritorno che pullulava di questue alle ambasciate, di imploranti telegrammi a casa per avere due lire, di inesorabili estenuanti attese alle Poste centrali dove al «Poste restante», uno sportello al quale, in tutte le città del mondo, era possibile farsi spedire una lettera, il funzionario di turno che ormai ti conosceva, crollava il capo per dirti che anche oggi non era arrivato un bel nulla. Non tutti però tornavano a casa. Il Viaggio all’Eden aveva un’appendice, anzi più di una. Verso oriente si apriva infatti un altro universo la cui prima tappa era la Thailandia. Da lì ci si poteva perdere in un’infinità di mondi: nell’ex Indocina francese, nella Malaysia di Salgari, nell’Indonesia dalle mille isole. Alcuni di noi si imbarcarono per quell’avventura, ultima puntata verso un nuovo Paradiso. Ma ad aspettarci, nel 1974, c’era anche un Inferno, quello della Guerra del Vietnam che aveva contagiato tutto il Sudest asiatico. Inevitabilmente fece ammalare anche noi.

(9 – continua. Le precedenti puntate sono uscite il 20, 21, 23, 27, 29, 31 agosto, 4 e 6 settembre)