Cinque giorni dopo i nervi iniziano a saltare. Mentre si continua a scavare nei distretti di Lamjung e Gorkha, i più colpiti dal sisma di magnitudo 7,9 che ha colpito il Nepal lo scorso 25 aprile, l’aggiornamento costante del bilancio dei morti ha toccato ieri quota seimila. Bilancio provvisorio, ha spiegato alla stampa il primo ministro Sushil Koirala, prevedendo una cifra di deceduti definitiva nell’ordine delle dieci migliaia. Ci vorrà del tempo, anche solo per raggiungere le zone più remote del paese dalle quali le notizie arrivano alla spicciolata e raccontano di villaggi quasi completamente distrutti e addirittura di ex villaggi, centri abitati trasformati interamente in cumuli di macerie.

Le analisi a freddo che iniziano a trapelare solo ora, indicano che quando la terra ha tremato, alle 11 e mezza di sabato, in molti si trovavano fortunatamente all’aria aperta: le scuole erano chiuse e chi lavora la terra – secondo le statistiche, tre lavoratori su quattro in Nepal – era ancora nei campi, così che il crollo delle gracili strutture nepalesi, specie nelle zone rurali, non ha colto gli abitanti sotto a un tetto. Notizia buona per metà, ora che la frustrazione di chi è tornato in una casa che non c’è più si aggiunge alla disperazione di giorni passati accampati per strada, con acqua e cibo che scarseggiano e gli aiuti umanitari che hanno letteralmente intasato l’aeroporto di Kathmandu.

Ne arrivano troppi tutti insieme, si apprende dalle agenzie, e molti cargo sono costretti ad attendere in volo la fine delle operazioni di scaricamento a terra. L’impreparazione del Nepal al terremoto – quando il cibo scarseggia, l’architettura antisismica per i privati assume realisticamente il carattere del lusso, per il pubblico dello «spreco» – è estesa anche alla ricezione e smistamento dello slancio di solidarietà internazionale, tra una macchina statale giovane e inefficiente e infrastrutture spesso approssimative.

Così quando Koirala ha fatto visita a uno dei primi campi di soccorso attrezzati a Kathmandu, i concittadini hanno sfogato la propria rabbia contro uno stato accusato non solo di non provvedere alle vittime del terremoto, ma di non essere nemmeno in grado di gestire gli aiuti degli altri.

In mancanza di un piano chiaro per la distribuzione degli aiuti, nella giornata di ieri sono iniziate le prime risse in coda per ricevere acqua e cibo, sedate dall’intervento delle forze dell’ordine nepalesi.

In contemporanea, mentre la frustrazione diventava prima rabbia e poi panico, migliaia di superstiti rimasti all’addiaccio a Kathmandu hanno deciso di andarsene in massa dalla capitale, dove cibo e acqua non ci sono, per raggiungere le campagne. Secondo un ufficiale di polizia intervistato dal Guardian, sarebbero già più di trecentomila i domiciliati a Kathmandu che hanno abbandonato la città riversandosi su autobus stracolmi: un abitante su dieci.

La gran parte dei velivoli stranieri che hanno raggiunto il Nepal per le operazioni di soccorso, al momento, provvedono a rimpatriare i propri connazionali, principalmente appoggiandosi all’aeroporto di New Delhi, secondo quanto appreso da alcuni cittadini italiani rientrati dal Nepal e contattati da il manifesto. Per quanto riguarda i nepalesi bloccati lontani dai principali centri abitati, non è chiara l’efficacia delle operazioni di soccorso fino a questo momento. Sicuramente niente di paragonabile allo sforzo di mezzi e personale – già sul posto – dispiegato sull’Everest per trarre in salvo le decine di alpinisti bloccati sulle pareti della vetta più alta dell’Himalaya, tanto che lo scalatore Reinhold Messner, su Repubblica, ha denunciato soccorsi di serie A per gli occidentali in alta quota e di serie B per i locali a valle. I sopravvissuti nei villaggi, a cinque giorni dal terremoto, ancora attendono che qualcuno si ricordi e venga ad aiutare anche loro.