È passata quasi una settimana dall’orrenda strage di Orlando, una settimana tragica che ha illuminato come un lampo il paesaggio convulso di questa America al crocevia, chiamata a cercare di definire il proprio futuro. «L’11 settembre degli Lgbt» ha deflagrato una polemica in cui sono risaltati i contorni dell’epocale scontro in atto.

Trump, per la cui narrazione di psicosi e conflitto ogni violenza è carburante essenziale, non ha perso tempo nell’appropriarsi dell’attentato. Anche questo ennesimo, anomalo, sconsiderato atto in cui in apparenza si mescolano mitomania, pregiudizio, integralismi e malesseri contorti, è stato lo spunto per alimentare il panico e raccogliere i frutti della paura seminata negli ultimi mesi.

Era ampiamente previsto che un attentato avrebbe giovato alla retorica trumpiana, molti avevano già annoverato questa ipotesi come possibile – forse unica – via alla vittoria per Trump. Non è stata dunque una sorpresa quando il bellicoso miliardario ha tuonato il suo «ve l’avevo detto!» E alla triste fenomenologia del mass shooting americano si è aggiunta una strumentalizzazione che ha dato la misura della perniciosa corrosione populista in atto.

Gli Usa parevano fino ad oggi aver evitato lo sgretolamento politico e morale che affligge l’Europa dilaniata da deportazioni di profughi e frontiere fortificate. Perfino Bush, pur mentre accendeva la miccia mediorientale, era stato attento a parole a sconfessare lo «scontro di civiltà» nel nome del sacrosanto «melting pot».

Trump ha dimostrato di non aver simili remore, semmai di trarre vantaggio da ogni nuova eresia. Dopo Orlando ha non solo ribadito l’espulsione dei musulmani ma esteso la proposta di proscrizione alle seconde e terze generazioni di immigrati. La sua insinuazione di tradimento («il presidente o è stupido o cela secondi fini») è una variante di quelle sulla presunta nascita keniota messe in campo qualche anno fa ed ha obbligato Obama a scendere in campo apertamente: «In alcuni momenti della nostra storia,” ha detto il presidente “ abbiamo ceduto alla paranoia e ce ne siamo pentiti».

Oltre che per l’attacco personale, la rabbia malcelata della sua replica è stata motivata dalle incalcolabili conseguenze della formulazione trumpista su una società multietnica come quella americana. «Abbiamo conosciuto i soprusi del governo verso i propri cittadini ed è stata una storia vergognosa» ha detto Obama. Il riferimento ai campi di concentramento per Nippo Americani e soprattutto alle liste di proscrizione contro i comunisti di Hollywood non è stato casuale.

A Orlando si chiude infatti un cerchio nefasto. Sulle ceneri del Pulse, Trump ha assunto appieno l’eredità di Joseph McCarthy. L’accusa insinuata contro Obama gli attacchi alla stampa (con relativo ritiro degli accrediti ai giornalisti «nemici») le suggestioni di colpevolezza per associazione sono trascrizioni letterali del copione di McCarthy, delle sue fittizie liste «di comunisti nel dipartimento di stato» sventolate alle conferenze stampa.

Il neomaccartismo di Trump è una discendenza diretta il cui anello mancante è Roy Cohn. Cohn, già giovane procuratore nel processo a Julius ed Ethel Rosenberg (giustiziati nel 1953 come spie russe) divenne braccio destro (raccomandato da J Edgar Hoover) e mastino nelle inquisizioni di McCarthy contro «traditori, comunisti e omosessuali», prima di continuare la carriera come potente avvocato di New York (fra i client l’arcivescovo della cittàe il capomafia Fat Tony Salerno). E a partire dagli anni 70 divenne avvocato di un rampante imprenditore impegnato a gettare le basi del suo impero immobiliare. Nel 1971 Cohn difende Trump in una causa civile per via della discriminazione di affittuari neri nelle sue proprietà. Da allora fino alla sua morte nel 1986 I l’avvocato diventa un suo consigliere e punto di contatto con i politici utili ai suoi affari, nonché mentore e amico. È un sodalizio che spiega molto delle tattiche impiegate da Trump in questa campagna e che – alla luce della strage di Orlando – contiene anche l’ironia dell’omosessualità latente del vecchio avvocato fascista che sarebbe morto di Aids.

Qualche giorno fa Gary Younge su The Nation si domandava se definire Trump un fascista non gli facesse troppo onore vista l’apparente incoerenza dei suoi proclami. Ma è ora evidente che rappresenta uno dei filoni più velenosi dei totalitarismi americani, le cui ferite non sono tutt’ora del tutto rimarginate.

Trump è tornato a dare voce ad alcune delle tendenze più insidiose della recente storia di questo paese. «Gli insulti e la crudeltà bigotta rimarranno impressi sulla memoria americana per molto tempo ancora», scriveva giorni fa Peter Wehner sul New York Times. «Trump è una figura maligna e perniciosa nel panorama politico del paese. E nominandolo a candidato del proprio partito, i repubblicani si sono fatti partecipi di questa macchia ».

La scia tossica del suo maccartismo è particolarmente insidiosa perché venata di suprematismo e col potenziale quindi di far saltare la polveriera di un paese coi nervi già tesi per gli endemici soprusi razziali. Una strategia piromane particolarmente preoccupante per la sua efficacia: solo l’altroieri John McCain, decano della destra ha fatto eco a Trump definendo Obama «direttamente responsabile della strage di Orlando» per aver permesso l’ascesa dell’Isis.

Le cacce alle streghe di McCarthy e Cohn erano tristemente note per l’imposizione di delazioni ed abiure ai «simpatizzanti». La versione di Trump in questo caso è stato di esigere che i democratici dimostrassero fedeltà patriottica nominando «l’islam radicale». Obama si è rifiutato denunciando il terrorismo ideologico della richiesta. Hillary Clinton ha fatto passare appena una manciata di minuti prima di pronunciare le fatidiche parole – scordando che davanti ai tribunali di McCarthy qualunque risposta equivaleva già ad una sconfitta. Un autogol che non presagisce nulla di buono per una campagna che si preannuncia sempre più velenosa.