Mehdi Nemmouche, 29 anni, nato a Roubaix (Nord), era ieri al terzo giorno in stato di fermo, accusato di essere l’autore del massacro del 24 maggio scorso al Museo Ebraico di Bruxelles, dove tre persone sono state uccise (una coppia di turisti israeliani e una francese) mentre una quarta (un giovane impiegato belga) è in stato di coma. Il Belgio ha chiesto l’estradizione. Nemmouche non parla, ma nel bagaglio che aveva con sé sul pullman delle Eurolines Amsterdam-Marsiglia, che aveva preso per rientrare in Francia da Bruxelles, aveva delle armi, una video-camera e un video registrato, dove spiegava il suo gesto a Bruxelles. Nemmouche è stato arrestato a Marsiglia, alla discesa dal pullman, si puo’ dire quasi per caso, in seguito a un controllo dei doganieri. Ieri, quattro persone sono state arrestate in Francia, due nella regione parigina altre due nel sud del paese, nell’ambito dell’inchiesta sull’attentato di Bruxelles, ma non sono state date precisioni sulla loro implicazione nel caso specifico. Sono sospettati di essere coinvolti nelle filiere di reclutamento per arruolare jihadisti in Siria. Domenica, il ministro degli interni, Bernard Cazeneuve, aveva ancora definito Nemmouche un “lupo solitario”, che stando ai primi elementi dell’inchiesta avrebbe anche potuto agire da solo.

Le polemiche gonfiano in Francia e in Belgio. La destra si è buttata sul caso, che ricorda l’orrore dell’eccidio perpetrato due anni fa da Mohamed Merah, a Montauban e in una scuola ebraica a Tolosa, dove aveva perseguito e ucciso a sangue freddo con una pallottola nella testa tre bambini e un insegnante. Nemmouche e Merah condividono una radicalizzazione dell’islam e una deriva solitaria, nel senso che non hanno utilizzato le reti sociali su Internet o i contatti con le moschee più estremiste in modo tale da poter essere individuati in tempo come potenziali terroristi.

Nemmouche era schedato dai servizi segreti. Era stato più volte condannato per reati comuni e aveva passato del tempo in prigione, dal dicembre 2007 a fine 2012. E’ in prigione che si sarebbe radicalizzato. Il suo caso solleva una volta di più il problema del proselitismo estremista nelle carceri, conosciuto da anni ma contro il quale le autorità sembrano impotenti, anche se ora, di fronte a questo nuovo caso, viene riproposta la ricetta di un’accresciuta presenza di imam moderati nei penitenziari. Nemmouche era seguito dai servizi segreti soprattutto perché era andato a combattere in Siria con il gruppo Stato islamico in Iraq e nel Levante, uno dei più radicali tra i ribelli anti-Assad. Era anche schedato nel Sistema di informazione Schengen (Sis). Si sa che il 31 dicembre 2012 è andato in Siria, seguendo un percorso complicato, per seminare i controlli: passa per Bruxelles, Londra, Beirut e Istanbul. Al ritorno, altrettanta attenzione a confondere le piste: è entrato a Francoforte il 18 marzo scorso, dopo aver lasciato Istanbul il 21 febbraio, passando poi per la Malesia, Singapore e Bangkok.

La destra e il Fronte nazionale accusano il governo di lassismo. Ma anche i servizi segreti spiegano che in uno stato di diritto per arrestare qualcuno ci vogliono dei buoni motivi. Domenica, Cazeneuve e la ministra degli interni belga, Joëlle Milquet, hanno affermato che c’è bisogno di “un rafforzamento della sorveglianza europea dei candidati alla jihad”. Il fenomeno è ormai noto. In Europa vengono reclutate centinaia di persone per combattere in Siria, tra mille e 2500 islamisti sarebbero sul posto, mentre dall’inizio della guerra civile siriana ne sarebbero passati tra i 3mila e gli 11mila, secondo i dati del Jcsr (Centro internazionale di studi sulla radicalizzazione). Secondo il ministero degli interni, almeno 800 francesi sarebbero andati a combattere in Siria e in questo periodo sul posto ce ne sarebbero 350. Una ventina sarebbero già stati uccisi nei combattimenti in Siria. Il Belgio è, in proporzione, il paese da cui sono partiti per la Siria il maggior numero di combattenti radicali, seguito da Francia, Gran Bretagna, Germania, Danimarca e Olanda. In Francia ci sono stati di recente vari arresti di responsabili di filiere “siriane”. Il governo cerca di impedire le partenze, in particolare dei minorenni (ha rimesso il permesso obbligatorio di espatrio dei genitori anche per chi ha un passaporto), dopo vari casi di denunce da parte delle famiglie, che hanno constatato la fuga dei figli (e anche di alcune figlie, le ragazze combattenti in Siria sarebbero intorno al 15% dei totale degli “europei”). Gli jihadisti europei sarebbero impiegati in Siria anche come carcerieri degli ostaggi, molti dei quali hanno segnalato tra i loro guardiani persone che parlavano francese o inglese ma non arabo (i riscatti sono una delle fonti di finanziamento). Tra i paesi europei ci sono contatti costanti, dal 2012 esiste un gruppo di coordinamento specifico dei servizi, ci sono state riunioni anche con Usa, Australia, Turchia, Marocco, Giordania. Ma intervenire non è facile. I servizi segreti si concentrano sul controllo degli islamisti al loro rientro in Europa. Il caso del Museo ebraico di Bruxelles viene considerato come il primo caso di un attentato “di ritorno dalla Siria”, che potrebbe inaugurare una tragica tradizione in Europa. Potrebbe anche significare un cambiamento di strategia dello Stato islamico in Iraq e in Levante, deciso ora a colpire l’Occidente.