Stupore. È la sensazione che prova chiunque abbia un po’ di conoscenza della politica spagnola quando deve constatare la fortuna del sistema elettorale iberico nel nostro Paese. Buon ultimo, dall’altro ieri si annovera anche il leader democratico Matteo Renzi fra quanti affollano il coro degli estimatori italiani della legge che in Spagna regola la formazione del Congreso de los diputados: dopo il Porcellum potrebbe toccarci lo Spagnorellum.

Abituati come siamo a tentare di importare modelli altrui, perché stupirsi? Il motivo è presto detto: il sistema elettorale che da noi si vorrebbe copiare, è da tempo messo in discussione proprio nel Paese in cui è in vigore. A farlo nel modo più clamoroso fu il movimento degli indignados, che aveva tra le sue ragioni d’essere proprio il rifiuto di «regole del gioco» che falsificavano di molto la partita. Come dovettero riconoscere persino i socialisti del Psoe, che, da allora, almeno a parole vogliono una riforma della legge in vigore, come da sempre chiede Izquierda unida (Iu).

Se si considera che molte critiche si sono levate da politologi e costituzionalisti, e persino dai «saggi» del Consejo de estado, supremo organo consultivo del governo, si ricava il quadro completo della situazione: in Spagna il «modello spagnolo» non piace quasi più a nessuno. Salvo al conservatore Pp del premier Mariano Rajoy, custode geloso dello status quo, quando non fautore di pesanti svolte reazionarie in materie di diritti sociali e civili.

I critici pongono l’accento, in particolare, sugli effetti di «sproporzionalizzazione» del sistema, che derivano soprattutto dalla combinazione del disegno delle 52 circoscrizioni e dal metodo «d’Hont» con cui si calcola la ripartizione dei seggi. Per fare un esempio: nel 2011 il Pp ha ottenuto il 53,1% dei seggi con il 44,6% dei voti, mentre Iu soltanto il 3,1% dei seggi pur avendo il 6,9% dei voti. Dividendo il numero di voti ottenuti per seggi assegnati, si ottiene che il Pp ha avuto bisogno di 58mila voti per ciascun deputato eletto, mentre a Izquierda unida ogni eletto è costato 153mila voti.

Il sistema giova infatti ai grandi partiti nazionali a scapito di quelli minori, che non per forza di cose sono piccolissimi e «sacrificabili» secondo la logica che ammette la legittimità delle soglie di sbarramento – legali o de facto. Ma c’è di più: la legge spagnola «protegge» anche le liste che sono forti solo in determinati territori. Un principio giusto, ma che «tradotto in politica» significa dare potere negoziale a chi è detentore di pacchetti di voti in zone piccole ma potenzialmente decisive. Là ci sono gli indipendentisti in Catalogna, qui abbiamo i Clemente Mastella nelle Ceppaloni del sud e del nord: non è proprio la stessa cosa.

Lo stupore per la fama immeritata di un modello criticato nel Paese in cui è nato diventa inquietudine quando si mette a fuoco un «dettaglio» della proposta di Renzi: il sistema spagnolo nella versione italiana dovrebbe prevedere un premio di maggioranza del 15% assegnato d’ufficio. Se si studiano i dati delle elezioni iberiche, si nota che i partiti usciti vincitori hanno sempre goduto di un «premio» in media di circa il 10%, risultante semplicemente dal calcolo di assegnazione dei seggi di cui si è detto sopra. Quindi non da un premio stabilito a priori. Se mai diventasse realtà il modello spagnolo in salsa fiorentina, sarebbe quindi possibile un premio-monstrum del 25%, derivante dalla combinazione dei due fattori. Praticamente un altro Porcellum.