Sarebbe una svista imperdonabile se nell’estate dei cinquant’anni della Summer of Love e di Sgt Pepper’s passasse inosservato un disco che è un fulgido omaggio contemporaneo alla psichedelia e la colonna sonora perfetta per celebrare quell’epoca leggendaria. Lo firma una musicista nata a Liverpool, che vive a Manchester, è laburista convinta e non si offende se a 45 anni la chiami long runner. Jane Weaver fa musica da quando era adolescente – a John Peel piacevano i Kill Laura – ma il suo exploit è arrivato nel 2014 con The Silver Globe. Con Modern Kosmology, ottavo album uscito lo scorso maggio, ha fatto di meglio: ritmi metronomici che richiamano Neu e Can, Sonic Youth morbidi e Stereolab, tutta la grazia e la precisione di un pop sperimentale melodico e ferreo, lucido e coinvolgente, ipnotico ed elegante. Le abbiamo chiesto le fonti della sua ispirazione.

Che significa «Modern Kosmology»?

L’anno scorso ho letto dei libri che spiegavano la storia del cosmo e ho deciso che il disco sarebbe stato lo studio della storia del mio universo. Tutti possiamo creare la nostra bolla personale, fare qualcosa di buono, generare energia positiva per l’umanità. È una specie di messaggio cosmico hippy che volevo esplorare e condividere, perché mi sentivo triste per quello che stava accadendo nel mondo e lo sono ancora.

Dopo «The Silver Globe» hai detto di volerti orientare verso la semplicità, il minimalismo. Invece il nuovo album possiede una maggiore ricchezza sonora, un suono che si espande e diventa proprio cosmico.

Ero decisa a cambiare suono e produzione per non annoiarmi. Quando cominci un nuovo progetto è importante essere coinvolti. Nell’album precedente ho usato molto effetti come space e tape echo, che sono stupendi, ma per questo disco volevo qualcosa di diverso. Non ci sono molte tracce di chitarra nelle canzoni, per questo suonano più spaziose e potenti. Sono meno congestionate. Ho cercato di ampliare lo spazio e rendere tutto minimale. Il suono è più chiaro, la voce più forte e il risultato d’insieme suona più grande. Il lavoro di produzione è molto interessante e creativo quando cerchi il cambiamento.

Infatti il disco ha un suono sofisticato senza essere iperprodotto.

Di solito lavoro in questo modo: vado in studio e registro una valanga di idee, tantissime parti di tastiera e chitarra. Scrivo i testi ma per la traccia vocale aspetto che la musica sia finita. Quando arriva il momento di aggiungere la voce, a volte la situazione mi sembra troppo affollata e allora comincio a togliere. Se ho messo troppi ingredienti, ne rimuovo qualcuno. Finito il lavoro in studio, sento i demo a casa per un paio di settimane. È un riascolto diverso che innesca idee su come rendere tutto più intrigante.

La prima canzone è dedicata alla pittrice svedese Hilma af Klint. Come l’hai scoperta?

Ho visto una mostra di arte femminista d’avanguardia alla Tate di Liverpool. Per me è stimolante osservare come creano gli altri artisti. Se sei un musicista non devi fossilizzarti solo sulla musica: riflettere sulle altre forme di creatività, come la pittura, aiuta a pensare in modo diverso, a uscire dal tuo recinto aprendo piccole porte. Nel testamento Hilma af Klint ha disposto che le sue opere fossero mostrate al pubblico solo vent’anni dopo la sua morte perché erano troppo avanti. La sua è un’arte astratta che usa codici, diagrammi e simboli per rappresentare la realtà invisibile. Usava la tecnica del disegno automatico e le sedute spiritiche per dipingere senza interruzione per giorni interi. Storie come la sua sono di grande ispirazione per l’impegno che gli artisti mettono nel cercare di esprimere la loro visione. Capire la provenienza delle loro idee è molto interessante per me. Trovo stimolante anche la scena femminista newyorchese degli anni ‘70 e un’artista come Lynn Hershman.

Ti piace la psichedelia, in particolare quella britannica? ù

Sono una grande fan di Beatles e Pink Floyd. Quando ero piccola ascoltava molta musica grazie agli amici di mio fratello, gruppi come Hawkwind e Gong. Da adolescente l’ho riscoperta per conto mio. Ho già visto due volte la bella mostra sui Pink Floyd a Londra che ricostruisce il loro viaggio dagli inizi a partire dal movimento della psichedelia britannica. È una parte importante della nostra tradizione rock.

Perché hai coinvolto Malcolm Mooney, l’ex cantante dei Can, in Ravenspoint? 

Sentivo che quel brano aveva bisogno di una parte di spoken word, di una narrazione densa, e Malcolm secondo me era perfetto. Volevo che fosse una poesia astratta, così ho scritto parole a caso che danno al brano un tono meditabondo, come per riprodurre l’atmosfera delle sedute spiritiche visive di Hilma af Klint, dello spiritismo vittoriano e della camera oscura. Malcolm si è trovato a disagio con alcuni versi: Donald Trump era appena stato eletto e nel testo si parla di un muro, anche se io non mi riferivo a quello di Trump.

Qual è stata la prima canzone che hai scritto per il disco?

Forse una delle prime è stata la title track. Mio marito (il dj e produttore Andy Votel, ndr) e io abbiamo trovato un organo Philicorda Philips in un negozio di beneficenza. Il titolare non sapeva che era un ottimo strumento e noi abbiamo cercato di portarcelo via a poco. Alla fine l’abbiamo comprato e una volta a casa ho cominciato a giocarci. Il riff di Modern Kosmology è nato così, per una coincidenza fortunata.

Se potessi organizzare un festival, chi faresti suonare? 

Kate Bush, che però non fa mai concerti, a parte quelli di due anni fa. Forse potrei convincerla a tornare a cantare dal vivo. Sono sempre più interessata alla musica tradizionale libanese e araba suonata da gruppi tradizionali, poi vorrei della musica cilena fortemente psichedelica. Cose fuori dall’ordinario.