«Si scrive per dare voce agli animali morenti»: forse sarà capitato di sentire il rimbombo di questa vecchia sentenza a coloro che hanno terminato Hamburg, il libro di Marco Lupo edito dal Saggiatore (pp. 239, euro 21). Sono animali infatti gli uomini e le donne che nelle notti fra il luglio e l’agosto del ’43 finiranno bruciati vivi sotto le bombe alleate cadute su Amburgo; ed è la loro morte dalla parte «sbagliata» della storia che sembra ossessionare l’autore, al punto da dedicare loro gli sforzi di questo denso esordio che, se non altro per le premesse, di esordio presenta ben poco.

È UN’OSSESSIONE, quella di Lupo, che del resto sembra alimentare una dose non banale di coraggio; Hamburg è un’opera polifonica che con molta fatica faremmo rientrare all’interno della categoria romanzesca. Si tratta piuttosto di un’evocazione: inserite in una cornice meta-letteraria le pagine centrali del libro non sono altro che i frammenti di una bibliografia finzionale letta (si presuppone ad alta voce) da un gruppo di esuli italiani a Parigi. In questa bibliografia si susseguono libri, fra cui il testo eponimo «Hamburg», lacerati come i fatti e le testimonianze che riportano alla luce, ma tutti riconducibili a un’identità-ombra, quella dell’autore M.D., che si scoprirà cresciuto in fasce proprio durante i bombardamenti dell’operazione «Gomorrah».

Tutto il libro si svolge dunque attorno a un decisivo chi?, questione sia chiaro che non si limita all’identità del fantomatico scrittore, ma che intende sconquassare la memoria di una Europa i cui traumi sono ancora nascosti, per l’appunto, negli incubi inconsci di un neonato. Sulla scia soprattutto di Sebald, Lupo esplicita questo suo lamento come «letteratura delle macerie»; lo sforzo di raccogliere storie come quelle della dimenticata resistenza tedesca, dei ricostruttori di Amburgo selezionati dai campi di sterminio, o le storie di Wolfgang Borchert e Musa Cälil, costretti a scrivere le loro ultime parole nel terrificante panopticon di Moabit. Sono loro i veri protagonisti delle vicende narrate. Ora, si potrà supporre che una struttura del genere, ambiziosa, possa malcelare un incontrollato desiderio di sperimentazione – come chi bazzica il blog del collettivo TerraNullius, di cui l’autore fa parte, avrà già colto altrove. Ma se talvolta ci si sente frastornati dalla cortina di allusioni che infesta il libro, è pur vero che l’intento è limpido e che il clima della tragedia in atto rimane magistralmente e inaspettatamente temperato.

SE NON PROPRIO matura, Hamburg ha il pregio di mostrarsi come un’opera maturata, covata nel tempo, come solo un gran lettore (Lupo è un formidabile libraio) poteva immaginare e buttar giù. L’abbandono di una trama tradizionalmente intesa, per quanto a tratti disorientante, l’insistenza sulla coralità di voci strozzate, impongono infatti di fissare lo sguardo su tutte le assenze esorcizzate dall’autore durante la lettura.
Il grande nulla dell’oblio del passato, prima di tutto, a cui l’immaginazione letteraria cerca di sopperire. Ma anche del presente: quando nell’ultimo memoriale di M.D. ci viene concesso di ascoltare un suo splendido soliloquio alle porte del decadimento mentale. Il libro di Marco Lupo, in questo senso, ha l’arditezza di avvicinarsi all’inconsistenza proprio perché vuole farne il tema centrale delle sue appassionate fatiche letterarie. Ne scaturisce un mondo nero, in cui il confine fra letteratura e vita è quindi fluido e anti-intellettuale: dove degli scrittori riusciamo a sentire l’alito, mentre ai politici come Churchill tocca il premio Nobel per la Letteratura.