Il buco è l’Abisso del Bifurto, scoperto nel 1961 dal Gruppo Speleologico, alcuni giovani speleologi piemontesi che avevano attraversato l’Italia per arrivare sull’altopiano del Pollino, al confine tra la Calabria e la Basilicata, e guidati da Giulio Gècchele si erano inabissati nel cuore della terra in cerca di quella che si rivelerà una delle grotte più profonde al mondo (700 metri). Ma il nuovo film di Michelangelo Frammartino, il più sorprendente finora del concorso veneziano, non è il semplice biopic di un’impresa nella quale si riflette un po’ dell’Italia del tempo, gli anni del boom economico che ambivano a una «modernità».

QUELLO che il regista calabrese sembra cercare in questo nuovo film, girato sempre nella «sua» Calabria, dopo Le quattro volte (2010) e l’installazione/film di Alberi (2013), è ancora una volta il desiderio di mettere alla prova il cinema, e l’atto stesso del filmare, in un confronto con la natura, il paesaggio, gli uomini e la storia che si manifesta sui bordi cercando lì quanto è invisibile nei significati e nelle relazioni. La sua narrazione dissemina dunque molte piste, lascia spazi aperti nei quali ciascuno può cogliere un senso, trovare una traccia che si riferisca a una dimensione collettiva o a una zona più intima dell’esperienza. Filmare i luoghi o gli esseri viventi che li abitano per Frammartino è qualcosa che «provoca» lo sguardo perché accade in un fuoricampo che interroga costantemente la memoria, la conoscenza, il presente, il mondo nel suo mistero, l’immagine nella sua materia, l’arte del racconto.

E SE COME leggiamo nelle note sui materiali stampa è l’oscurità nel rapporto (impossibile) col cinema una delle sfide racchiuse nel film, attraverso i frammenti di storie e di archivi e materiali televisivi scopriamo anche l’Italia del tempo, in cui si voleva costruire un futuro economico che sanciva una trasformazione parziale, e poco attenta alla complessità, in cui se al nord, a Milano, capitale simbolo di questa rinascita, veniva celebrata trionfalmente la costruzione del Pirellone, verticalità protesa al cielo, il sud era invece arcaico (e ignorato), lavava i panni nel fiume e le strade non esistevano: doveva esserci stupore tra quei ragazzi quando arrivarono a scoprire una realtà tanto diversa, quasi un’altra epoca, nel paesino con un unico televisore che trasmetteva qualcosa molto distante rispetto a quel quotidiano.

Lo stesso stupore con cui la scopriamo oggi, senza enfasi, nella sua maestosità aspra, in un sentimento antico che porta con sé ancora un’ altra storia, che esprime le contraddizioni italiane, le promesse mancate di quell’epoca. E cosa significava per quei ragazzi immergersi nelle grotte, cercare uno spazio ancora ignoto? Quale rapporto poteva nascere con quanto li circondava, con la loro scoperta di Italia a ignota dentro e fuori?

Il loro arrivo nel paese viene mostrato filmandoli dall’alto (sono veri speleologi del Gruppo di oggi, arrivati a Venezia sul tappeto rosso) e dall’alto è ripreso anche il cammino che percorrono, quasi a distanza. Nel primo piano c’è invece il volto di un vecchio pastore che ogni giorno porta i suoi animali proprio laddove gli speleologi scaveranno: la sua ritualità che è quella delle bestie, della terra viene così all’improvviso stravolta. Chi è questo pastore? Possiamo forse immaginarlo come un’ «anima» di quel posto che si spegne pian piano mentre lo scavo va avanti quasi non potendo fronteggiare l’impudica scoperta del suo mistero?

L’OCCHIO di Frammartino si alza per cercare i movimenti della luce in cielo, le nuvole, la montagna, poi si immerge seguendo il cammino di questi esploratori silenziosi, che «sfidano» pacati l’abisso proprio come la sua macchina da presa l’oscurità che li circonda complice la maestria alla fotografia di Renato Berta.

MENTRE la discesa procede fuori un ragazzo «documenta» nei suoi disegni quanto ha intorno, l’anziano uomo si ammala, gli amici si prendono cura di lui. Alto/basso, superfici/viscere, nord/sud, luce/buio la messinscena lavora su una continua tensione che non oppone bensì va alla ricerca di quella «giusta distanza» del punto di vista che permette di intuire oltre l’evidenza, di lavorare col pensiero in profondità.

I passi degli «esploratori» a differenza di quelli galleggianti nel vuoto dei cosmonauti o degli astronauti, sono bene attaccati alla terra, si muovono cauti, si intrecciano ai rumori che arrivano diversi da come li sentiamo all’aria aperta – Frammartino ha usato il sistema Dolby Atmos 5.1 con quasi 50 sorgenti sonore per restituire questo spaesamento che è lo stesso della pupilla costretta a allenarsi all’oscurità. E questo «allenamento» è la scommessa del cinema, guardare l’invisibile per ridefinire un’ immagine della realtà sfaccettata, in movimento, che non vuole replicare quanto siamo abituati a vedere.

Su queste traiettorie la scrittura cinematografica – e la sceneggiatura dello stesso regista insieme a Giovanna Giuliani – percorre il tempo, la storia italiana, le sue ferite, le sue contraddizioni, quell’aspetto remoto che può essere bellezza e insieme conflitto.

OGNI inquadratura è universo denso, ricco, che accoglie ciò che filma senza cercare di ingabbiarlo proprio come questo cinema sfugge a sua volta alle definizioni di «genere» – documentario, finzione; la sua cifra è fisica e filosofica, lavora sull’esperienza sensoriale, sul pensiero, sull”emozione: qualcosa di impalpabile e di segreto che si rivela come un’epifania.