Beyond The Beach: The Hell and Hope, che verrà presentato martedì 3 settembre nella sezione Sconfini, racconta il lavoro dei volontari medici, infermieri, riuniti dalla NGO Emergency. Creata nel 1994 da Gino Strada, Emergency conta 10 milioni di volontari sparsi per il mondo, che soccorrono civili, dagli scontri di Kabul, ai campi profughi in Iraq, fino alle barche dei rifugiati provieniti dalle coste libiche. Il film nasce da un’idea di Graeme A. Scott Scotte, giovane regista e produttore britannico, con una passione per la musica, il design e la tecnologia. Insieme a Katty A LoPrimo ha fondato La Dover Street Entertainment proprio per sostenere il suo progetto. Graeme mentre sorseggia un caffe americano in un bar di Londra, con un sorriso, una calma e una voce gentile mi racconta del suo incontro casuale con Gino Strada: «Mi ha subito colpito la sua umanità, fumava una sigaretta dietro l’altra, e mostrava una straordinaria dedizione per il suo lavoro. Ho deciso di andare a guardare da vicino il lavoro di Emergency. Sono partito, affiancato da un amico operatore Buddy Squires (diventato co-regista del film), un assistente e un tecnico del suono. Sin da subito è stato un lavoro di squadra. Ho acquistato i biglietti aerei per Kabul e siamo partiti, non sapevo cosa sarebbe accaduto. La prima persona che ho conosciuto è stata Giulia, l’infermiera che coordina il campo. Il resto è stata la fortuna di riuscire ad essere nel posto giusto al momento giusto. Il secondo giorno tutto si è svolto di fronte i nostri occhi. Abbiamo udito l’esplosione e assistito all’arrivo dei feriti. Dopo questo primo incidente non è stato difficile riuscire a stabilire dei legami con lo staff di Emergency. Ci siamo sentiti parte di loro. Per noi era importante acquistare fiducia e farli sentire a loro agio affinché ci raccontassero le loro storie. Ognuno ne aveva una, volevo avvicinarmi al loro modo di vivere il loro lavoro. È gente che rischia la vita ogni momento. Anche noi l’abbiamo rischiata, ma solo per qualche giorno. Si è svolto tutto in modo molto organico, davanti ai nostri occhi. Giulia quando sopraggiungeva un’emergenza era pronta a coordinare tutto con grande lucidità e forza d’animo. Ma quando la situazione diveniva più calma, emergeva la sua fragilità. Lo stress emozionale per tutto lo staff di Emergency è fortissimo, hanno momenti di tranquillità, di risate ma anche momenti di pianto, magari per non essere riusciti a salvare qualcuno. Si sono fidati di noi e per noi era importante fargli sentire che non erano da soli.

Ti sei posto delle priorità nelle tue scelte formali?

Sappiamo attraverso i media quello che accade a Kabul, ma le immagini e le notizie che riceviamo sono molto diverse dalla realtà, di quello che accade in questi territori, la sofferenza dei civili, donne, bambini, anziani, e le difficoltà dei soccorsi. Spesso i giornalisti chiamavano la base di Emergency a Kabul, per sapere quello che stava accadendo, chiedevano i numeri, di morti e feriti. Il lavoro dei media di riportare le notizie è un business. I numeri alti rendono le news più attraenti, è un lavoro superficiale che non aiuta a capire cosa accade realmente in questi territori

Hai incontrato Gino Strada durante il tuo lavoro?

L’ho incontrato molte volte nel suo ufficio di Milano, lo immaginavo attorniato da gente e impegnato in riunioni, ma lavora con pochi collaboratori, fino a tardi e le sue serate sono molto solitarie. Il suo ufficio è la sua casa. Una vita monacale. Ho percepito un sentimento di rassegnazione, rispetto alla realtà della guerra che non cambierà mai. Io lo trovo una grande persona, professionale e competente nella sua professione. Emergency non ha tanti mezzi economici. Gino ha apportato poche semplici regole, essenziali, come seguire le norme igieniche fondamentali di lavarsi le mani, altrimenti si possono sviluppare infezioni. I traguardi che Emergency ha apportato in soli 25 anni sono straordinarie.

Cosa ti ha colpito nei campi dei rifugiati?

I bambini felici. Sono nati lì e vivono la loro fanciullezza allegri e spensierati, sempre sorridenti. Ma nei volti dei loro genitori quello che si legge è frustrazione, tristezza, per la memoria di una quotidianità che forse non riavranno.

Come hai costruito la parte finale del film?

Secondo me è il momento più forte: il recupero dei rifugiati a mare, quella a cui sono più legato. Ho voluto trasmettere nel film lo stato mentale dei rifugiati che giungono dopo lunghi viaggi. Ho incontrato delle persone che mi sono rimaste dentro. Una donna è arrivata piangendo per la gioia di avercela fatta, un ragazzino mi ha raccontato di essere contento perché cosi ora potrà trovare un lavoro. Per questa parte finale ho lavorato a lungo con il montatore Mickey McKnight cercando di scegliere i tempi giusti, per ricostruire una memoria precisa della realtà, per non alterare il momento, non speculare sulle emozioni, e mantenere uno sguardo oggettivo, raccontando le operazioni di salvataggio nella loro complessità, puntando una riflessione attiva che ripercorrere, tutto il film, da Kabul. Avevamo materiali forti ma andavano resi in un discorso omogeneo. Quando si gira in quesì territori, il materiale filmico può essere veramente incompleto, la fase di montaggio è stata essenziale.

Puoi aggiungere altro sui rifugiati e su cosa ti aspetti dal film?

I rifugiati provengono dalla Siria, e da diverse regioni dell’Africa. Abbiamo visto arrivare un uomo morto e il suo compagno era seduto li vicino con una Bibbia in mano. L’immagine dei loro volti rimarrà per sempre nella mia memoria. Conservo anche il ricordo dei sorrisi gioiosi di una coppia, arrivati entrambi vivi. Con questo film vorrei stimolare la conoscenza di questa tragedia umanitaria, e sensibilizzare l’opinione pubblica. Vorrei che questo nostro film aiuti a conoscere e sostenere la causa di Emergency, quello che loro fanno è esemplare.