Nel bel mezzo della negoziazione tra Cina e Usa per la questione dei dazi, dopo l’arresto (e il rilascio su cauzione) di Meng Wanzhou, importante dirigente dell’azienda Huawei, ecco un altro motivo di frizione tra i due paesi, per quanto tramite uno stato terzo: l’agenzia polacca per la sicurezza nazionale ha arrestato un cittadino cinese dipendente della Huawei e uno polacco: entrambi sono accusati di spionaggio. Secondo i media polacchi il cinese avrebbero passato informazioni all’intelligence di Pechino. “Il cittadino cinese è un uomo d’affari che lavora per un’importante azienda elettronica, mentre quello polacco è noto in ambienti associati al business cibernetico”, ha riportato l’agenzia statale Pap, citando Maciej Wasik, vice capo dei servizi speciali.

Spie, Huawei, Polonia. In questo nuovo caso di accuse di spionaggio ai danni della Cina rientra dunque un paese europeo, uno di quelli inseriti all’interno del 16+1 il gruppone (Albania, Bosnia Erzegovina, Bulgaria, Croazia, Repubblica Ceca, Estonia, Ungheria, Lettonia, Lituania, Macedonia, Montenegro, Polonia, Romania, Serbia, Slovacchia, Slovenia) radunato dalla Cina per migliorare i propri rapporti con gran parte dei paesi dell’Europa orientale.

L’accusa volta alla Cina, da tempo, è la seguente: Pechino con questo gruppo minerebbe alla solidità dell’Europa. La Cina ha sempre risposto con molta calma al riguardo, sottolineando come non sia intenzione cinese disgregare l’Unione europea. Ma evidentemente, l’arresto odierno ci racconta che la Polonia non è da considerarsi paese totalmente convinto delle attività europee della Cina.

Sul caso del cittadino cinese arrestato in Polonia, le reazioni sono state immediate (Pechino ha espresso “grave preoccupazione”, come era già capitato con il Canada in occasione dell’arresto di Meng).

Secondo la stampa polacca, l’impiegato di Huawei sarebbe il direttore vendite dell’azienda cinese in Polonia, “Weijing W”, noto anche come Stanislaw Wang. Secondo il suo profilo su Linkedin, “Weijing Wang è un laureato in lingua polacca dell’Università degli Studi Stranieri di Pechino. Dal 2006, ha lavorato presso il consolato cinese a Danzica prima di iniziare a lavorare a Huawei nel 2011 e assumersi la responsabilità delle relazioni pubbliche dell’azienda in Polonia. Nel 2017 è stato nominato direttore commerciale delle operazioni polacche di Huawei”.

Come sottolinea il quotidiano di Hong Kong, South China Morning Post, “La Polonia è la sede principale di Huawei per l’Europa centrale e orientale e la regione nordica”. Questo nuovo “caso polacco” dimostra come uno dei tanti ambiti del confronto tra Cina e Usa abbia a che vedere con le attività di spionaggio e le accuse di Washington per i presunti furti tecnologici operati dalla Cina.

[do action=”citazione”]L’arresto avvenuto in Polonia, infatti, rafforzerebbe la “teoria” americana secondo la quale la Cina usa i propri manager all’estero per attività di spionaggio governativo.[/do]

Proprio quest’ultimo aspetto è alla base del recente scontro commerciale: non c’è solo il disavanzo commerciale tra i due paesi a motivare i recenti dazi americani ma anche il sospetto che le aziende cinesi operino come agenzie di intelligence e che le operazioni cinesi di acquisizione e investimento in aziende americane, abbiano portato, con il tempo, al furto di know how da parte cinese per favorire poi le proprie società nazionali.

Tanto è grande questo sospetto, che di recente la Reuters ha pubblicato alcuni articoli – citando fonti vicine alla Casa bianca – secondo i quali Trump sarebbe pronto a emettere un decreto esecutivo contro le aziende cinesi di telecomunicazioni perché direttamente collegate al governo di Pechino, un sospetto già evidenziato dal recente arresto della dirigente Huawei in Canada.

Si tratta di un tema complesso, perché al momento non esistono prove concrete di quanto afferma l’amministrazione americana. Anche le stesse accuse alla Huawei e alla ZTE, di utilizzare cioè backdoor per scaricare dati «sensibili» di altri paesi e consegnarli di fatto al partito comunista, non hanno mai trovato riscontri effettivi in sede giudiziaria.

Ma oltre al sospetto di furto, gli Usa di recente sembrano essersi concentrati sul cosiddetto spionaggio «totale» cinese nei confronti degli Stati Uniti. E in questo caso non siamo di fronte a 007 da romanzi o film, bensì, secondo le accuse americane, a professori, ricercatori, ingegneri, arruolati da Pechino per carpire segreti da altri stati.

Di recente la Bbc ha pubblicato uno speciale nel quale ha provato a raccontare come i sospetti americani abbiano portato ad arresti – anche con estradizione – di cinesi sospettati di spionaggio, insieme all’esposizione di un quadro generale sul modus operandi della Cina in tema di intelligence.

Uno dei casi analizzati è a proposito di un cinese che, benché operante per i servizi segreti, si fingeva altro, organizzando eventi e pagando ottimi gettoni di presenza a convegni in Cina, nei quali venivano chieste presentazioni piuttosto dettagliati di progetti americani in tema di aeronautica.

[do action=”citazione”]È il caso di Xu Yanjun: “Gli Stati Uniti sostengono che il caso di Xu è emblematico riguardo il piano generale della Cina: i funzionari dell’intelligence lavorano a stretto contatto con le compagnie cinesi per rubare segreti tecnici dall’Occidente, per utilizzarli successivamente per far avanzare la propria economia”.[/do]

“Dal punto di vista della minaccia alla sicurezza nazionale degli Stati Uniti e dei nostri interessi, quello cinese è di gran lunga la minaccia principale”, ha raccontato alla Bbc Bill Evanina, un ex funzionario dell’FBI che ora è direttore del Centro nazionale di controspionaggio e sicurezza statunitense.

Un altro caso considerato emblematico dagli accusatori americani è quello di Ji Chaoqun, nato in Cina, ma arrivato negli Stati Uniti nell’agosto 2013 “a studiare per un master in ingegneria elettrica presso l’Illinois Institute of Technology di Chicago. Nel 2016 si è arruolato nelle riserve dell’esercito americano”.

Gli Stati Uniti sostengono che “a Ji è stato chiesto di fornire dati biografici e verifiche in merito a otto ingegneri, tutti cittadini americani nati a Taiwan o in Cina. Tutti hanno lavorato o sono stati recentemente ritirati dai posti di lavoro nel settore scientifico e tecnologico, alcuni dei quali nel settore aerospaziale”.

Ji avrebbe raccolto la documentazione, spedita poi all’intelligence cinese in un documento nominato «Midterm Test Questions» per fare passare inosservato il suo invio. Ma a febbraio e nel maggio 2018, Ji avrebbe incontrato “due persone che si finsero appartenenti all’intelligence cinese”. In realtà erano agenti dell’Fbi sotto copertura.

Secondo Washington, quindi, la Cina non utilizzerebbe solo canali consueti, ma finirebbe per sfruttare ogni cinese all’estero per procacciare informazioni.

Su questo genere di accuse, rimangono sempre alcune questioni sospese: non c’è dubbio che molti cinesi all’estero possano essere assolutamente favorevoli a lavorare per il proprio paese, perfino al limite dell’illegalità. Ma i “recruitment” di informatori via Linkedin, denunciati dagli Usa e riportati dalla Bbc, ad esempio, non sembrano proprio attività impossibili da fermare, ad esempio chiedendo ai propri cittadini che ricoprono ruoli importanti nelle aziende chiave per la sicurezza del paese, di essere meno disinvolti nell’accettare viaggi pagati e sontuosi gettoni per le proprie conferenze in giro per il mondo.