Stéphane Mallarmé è lo scrittore ottocentesco che, insieme a Gustave Flaubert, più di ogni altro ha manifestato orrore per la trita stupidità dello stereotipo, è il poeta che si è ostinato – sulla scia dell’Edgar A. Poe celebrato nel famoso Tombeau – a donner un sens plus pur aux mots de la tribu, a stravolgere lessico e sintassi del linguaggio tribale (della tradizione poetica non meno che della comunicazione quotidiana), per tentare disperatamente di attingere a un’inaccessibile, mistica purezza della parola.

Per ironia della sorte, è oggi probabilmente il classico francese più inestricabilmente avviluppato in una ragnatela di pregiudizi e luoghi comuni: tutti, in diversi modi, scaturiti dalla constatazione paradossale, formulata per la prima volta nel 1893 dal patriarca della storiografia letteraria francese, Gustave Lanson, secondo cui «quel che rende interessante l’opera di Mallarmé è il fatto che non ci si capisce niente».

Gustave Lanson
«Quel che rende interessante l’opera di Mallarmé è il fatto che non ci si capisce niente».

Piccolo-borghese schivo e abitudinario – dal punto di vista biografico, non c’è nulla di più incongruo della sua inclusione nell’antologia dei Poeti maledetti, curata da Verlaine nel 1884 –, Mallarmé è autore di una produzione poetica rarefatta e frammentaria, che la morte precoce, nel 1898, gli impedì di vedere raccolta in volume.

Quasi ignorato in vita dalla critica ufficiale e dal grande pubblico, venne immediatamente riconosciuto come maestro dalla seletta cerchia di giovani poeti simbolisti che frequentava i suoi leggendari martedì.

Ma è la sua smisurata fortuna nei primi decenni del Novecento che ne ha fissato la collocazione nel canone della poetica, aristocratica e disimpegnata, dell’intransitività metatestuale: nella lettura estetizzante di Albert Thibaudet e in quella formalista di Paul Valéry, confluite, in Italia, nel culto che gli ha votato tutta la stagione dell’ermetismo, e nel conseguente rifiuto che gli ha opposto, con rare eccezioni, la critica orientata a sinistra.

Oscuro e orfico per antonomasia, Mallarmé ha portato alle estreme conseguenze, con ascetica coerenza, la frattura già romantica fra la parola e il mondo, affidando alla letteratura, in un universo laicizzato, una precaria supplenza del Sacro. Ma proprio la scelta dell’intransitività, come gli studi migliori hanno riconosciuto in anni recenti, può rovesciarsi in una «politica della scrittura» – ha scritto Jacques Rancière – di coloritura anarchica, ma lontana da ogni individualistico solipsismo; mentre la mitologia dell’assenza, dell’annullamento, del biancore mortuario (neve e pagina intonsa), di una perfezione effimera (spuma e merletto), è nutrita paradossalmente da una redenzione poetica del quotidiano.

In realtà, il maestro di Valéry e di ogni poesia pura è anche, più o meno involontariamente, all’origine di quell’assioma, decisivo per tutte la avanguardie novecentesche – e oggi inerte, ma forse troppo frettolosamente liquidato come utopica ingenuità –, che lega eversione linguistica e rivoluzione politica.

Un libro recente di Jean-François Hamel ricostruisce la storia appassionante e solo in apparenza incongrua di quel «compagno Mallarmé» (Camarade Mallarmé, Éditions de Minuit, 2014) che in Italia – contrariamente al Baudelaire fin troppo vulgato di Walter Benjamin – non ha mai trovato ascolto; e da questo punto di vista l’importante edizione delle Poesie, da poco in libreria per l’editore Marsilio (a cura di Luca Bevilacqua, traduzione di Chetro De Carolis, testo originale a fronte, pp. 384, euro 20,00) manca l’occasione, perché pur sottolineando come l’apertura plurisensa dei testi di Mallarmé renda più che mai decisivi il ruolo del lettore e il peso della ricezione, il curatore privilegia una interpretazione metatestuale che – sia pure aggiornata con le acquisizioni della stagione post-strutturalista – non esce di fatto dal solco tracciato dalla ripresa ermetica di Valéry (il libro di Rancière è confinato in bibliografia, quello di Hamel nemmeno citato).

La breve introduzione di Bevilacqua propone una disamina del concetto di «oscurità», che a sua volta è ambivalente, se non appunto oscuro: perché secondo un orientamento critico oggi maggioritario (probabilmente a ragione) implica una sistematica apertura e indecidibilità del senso; mentre una scuola esegetica non meno prestigiosa (al nome di Paul Bénichou accosterei almeno quello di Francesco Orlando, ingenerosamente ignorato) non esclude la possibilità di «un significato unico e definitivo» – sciogliendo, avrebbe detto Franco Fortini, l’oscurità in semplice difficoltà.

Il pregio maggiore del volume edito da Marsilio è altrove: nel corposo apparato e nella nuova traduzione. Nei saggi di commento che chiudono il volume, Bevilacqua offre per ogni testo le informazioni essenziali e una rigorosa parafrasi critica, davvero indispensabile per una prima comprensione della lettera, e spesso arricchita da acuti suggerimenti ermeneutici. Nella nuova versione, De Carolis affronta senza compromessi (imponendosi il massimo rispetto possibile per metrica e sintassi dell’originale), e con esiti non di rado molto pregevoli, un compito di smisurata difficoltà.

Fra i luoghi comuni che gravano su Mallarmé, uno dei più resistenti è quello relativo alla sua intraducibilità: certo smentito di fatto, in Italia come altrove, dall’abbondanza delle versioni novecentesche, che hanno impegnato poeti diversissimi fra loro – da Marinetti a Luzi, da Ungaretti a Valduga – e francesisti di vaglia (in primis, Luigi De Nardis); ma in certa misura confermato da risultati spesso deludenti: di fatto, prima dell’edizione Marsilio, l’unico Mallarmé ancora all’altezza, per rigore degli apparati critici e tenuta della traduzione, era forse quello di Luciana Frezza edito da Feltrinelli più di cinquant’anni fa.

Chetro De Carolis individua in modo convincente gli opposti rischi che inficiano il lavoro di «molti altri traduttori: la banalizzazione della sintassi a fini esplicativi e le aggiunte di termini insoliti finalizzati a mimare la ricercatezza dell’originale» (tendenza, quest’ultima, portata a un parossismo a tratti grottesco nell’Oscar Mondadori affidato a Patrizia Valduga).

Come per il Baudelaire di Antonio Prete (Feltrinelli, 2003), la scelta di tradurre l’alessandrino francese con il martelliano, equivalente per misura (è un doppio settenario) ma non per prestigio e registro, fa sì che il rischio maggiore di questo Mallarmé sia un’indebita cantabilità (per esempio: «Diffama una nudezza di tenerello eroe»).

Inoltre, le esigenze di metro e rima (o assonanza) inducono a qualche scelta lessicale peregrina: «niccolo» per onyx, l’onice delle unghie dell’Angoscia, nel sonetto in -yx; «invernare irrito» per stérile hiver, lo «sterile inverno» del sonetto del cigno (alla cui esegesi proposta da Stefano Agosti nel 1970 il commento non fa cenno).

Ma quando la sensibilità linguistica della traduttrice riesce a traslare in italiano i più notevoli fenomeni fonici dell’originale, l’esito è memorabile: così, il verso forse più emblematico dell’intero corpus mallarmeano, aboli bibelot d’inanité sonore (ancora nel vertiginoso sonetto in -yx), sarà d’ora in poi, in italiano, con felicissimo rincaro allitterante, «ninnolo annullato d’inanità sonora».