Qualcosa, da quella notte del 7 gennaio 2010, in effetti è cambiato. Ma è ancora troppo poco. Cinque anni fa gli immigrati addetti alla raccolta degli agrumi hanno preso spranghe e bastoni e devastato la piccola città di Rosarno: basta condizioni schiavistiche, basta sfruttamento, basta umiliazioni da parte dei calabresi e della ‘ndrangheta. La rivolta ha acceso un faro sul lavoro nero nelle campagne: ha spinto il sindacato a chiedere di più, e nel 2011 è arrivata la prima legge sul caporalato, con centinaia di arresti in tutta Italia e i processi. Ma questo non significa che oggi quei ragazzi vivano meglio: stesse baraccopoli fatiscenti, paghe da fame per 12 ore di lavoro bestiale, nessuna integrazione nella già difficilissima realtà sociale calabrese. Eppure sono arrivati i primi contratti in regola, le assemblee, le manifestazioni, e perfino uno sciopero.

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Celeste Logiacco ci guida tra i container di Rosarno e nella tendopoli di San Ferdinando: segretaria locale della Flai Cgil, questa ragazza ha il sindacato nel sangue. Non la ferma nulla: non solo tiene testa agli imprenditori e ai politici calabresi (come si può immaginare, quasi tutti maschi), ma è anche riuscita a formare una piccola squadra di delegati tra gli immigrati, conquistandosi nel tempo la fiducia dei raccoglitori. Tra queste baracche non mancano infatti solo i servizi essenziali per vivere (dall’acqua calda ai fornelli per cucinare) e i diritti basilari del lavoro, ma c’è soprattutto uno smisurato bisogno di informazioni: come si ottiene il permesso di soggiorno e a chi lo devo chiedere? Quanti euro deve essere retribuita un’ora di raccolta? Come si accede alle giornate di disoccupazione? Il sindacato è praticamente l’unico punto di riferimento: «Tanto che a volte si arrabbiano con noi quando non hanno risposte dalle istituzioni – dice Celeste sorridendo – Ma come faccio a spiegargli che non siamo dei politici?».

Jacob, del Ghana, è uno degli ultimi acquisti della Cgil: non parla benissimo l’italiano, ma si sforza al massimo per adempiere al suo ruolo di mediatore culturale. Non gli è facile raccontare i giorni drammatici del viaggio dalla Libia, sul barcone, ma quel che è certo è che adesso deve fare di tutto per lavorare il più possibile, perché gran parte dei suoi guadagni li manda alla famiglia rimasta in Africa: «Guarda – spiega mostrando il container in cui vive – sarebbe per sei persone, ma noi ci viviamo spesso in dieci. Il boiler dell’acqua calda ci si è rotto un anno fa, come anche il frigorifero, e il fornello. Lo abbiamo detto all’associazione che ha in appalto i servizi dal Comune: vengono qui, scrivono su un registro e ci dicono di aspettare. Ma poi non arriva mai nulla». Un amico di Jacob lava i vestiti in un secchio, poco distante si aggira un branco di cani randagi, tutto intorno cumuli di spazzatura. In effetti, guardando le condizioni in cui vivono circa 200 persone in 21 container, ci si chiede con quanta solerzia il Comune di Rosarno, e l’associazione «Il mio amico Jonathan», che gestisce in appalto i servizi, si preoccupi di rispondere alle richieste anche più basilari.

Mentre ci spostiamo verso la tendopoli di San Ferdinando, altro “inferno” in cui gli immigrati si devono adattare a vivere, Jacob e Celeste ci spiegano come si svolge una giornata nei campi. «I lavoratori raggiungono in bici, all’alba, le rotonde o gli svincoli della provinciale: lì arrivano i furgoni dei caporali. Quando sono troppi parte una selezione: prendono i più robusti o quelli che rompono meno le scatole. Per il trasporto chiedono 3 euro, da scalare dalla paga di una giornata: in genere 15 euro o poco più, quando va molto bene si arriva a 20-25 euro». La giornata si produce a cottimo: una cassa di 25 chili di arance fa 50 centesimi, mentre per i mandarini (più piccoli, ce ne vogliono di più per riempirla) si arriva a un euro. I campi sono molto grandi, e per spostarsi tra gli alberi si fanno centinaia di metri con il cassone sulle spalle. Niente pausa pranzo, se non con qualche arancia, niente fontanelle (l’acqua devi portartela da casa, o pagarla 1,50 euro al caporale). E se ti fai male? «Se la ferita non è grave – risponde Jacob – ti tocca aspettare la sera, quando torna il furgoncino. Altrimenti chiami il caporale, che viene a prenderti e ti scarica davanti a un pronto soccorso: alcuni chiedono fino a 20 euro per questo trasporto speciale».

L’assistenza medica di base è assicurata invece dal poliambulatorio di Emergency, a Polistena: i medici volontari vengono con un pulmino regalato dalla Flai, visitano periodicamente i ragazzi nelle loro abitazioni, o se è il caso li portano all’ambulatorio. La tendopoli di San Ferdinando è ancora più precaria rispetto ai container: ci vivono in mille, ma la struttura, allestita dalla Protezione civile all’indomani della rivolta, era concepita per circa un terzo degli attuali occupanti. Tanto che oltre a stiparsi nelle tende, gli immigrati hanno tirato su delle baracche tutto intorno: sgomberate e rase al suolo dalle autorità lo scorso ottobre, ma poi risorte qualche settimana dopo in quattro e quattr’otto. In qualche modo, un tetto sopra la testa te lo devi mettere.

Ma mica finisce qui: gli immigrati addetti alla raccolta nei campi, in tutta la Piana di Gioia Tauro, sono tra i 4 e i 5 mila, e hanno occupato casolari, fabbriche dismesse, capannoni abbandonati in tutti i 33 comuni del comprensorio. Molti si fermano a Rosarno solo per la stagione delle olive e degli agrumi (da settembre a marzo-aprile) e poi si spostano verso le piantagioni di carciofi o pomodori, in altre città. Ma tanti altri hanno scelto di essere stanziali, e restano in zona per tutto l’anno. Inventandosi tutta una serie di lavori paralleli: anche perché va detto che ormai gli impieghi scarseggiano perfino in alta stagione, visto che a causa della crisi molti agricoltori scelgono di lasciare la frutta sugli alberi.

Issa, del Gambia, ad esempio si è inventato un lavoro: lui ripara le biciclette per tutti. «Vengono anche gli italiani – dice orgoglioso mentre mette a posto una camera d’aria – Le tariffe sono basse, si va da 1 a 5 euro, a seconda del lavoro». Più impegnative le macellerie allestite da altri: comprano pecore, capre o galline, le macellano dentro la stessa tendopoli, e poi mettono a cuocere gli spiedini sulle resistenze dei frigoriferi. I fuochi spesso sono accesi vicino alle bombole a gas: insomma, condizioni igieniche e di sicurezza più che allarmanti. Altri ancora mettono a bollire l’acqua in dei grossi bidoni: e via, si va da 50 centesimi a un euro per una doccia decente.

Di necessità virtù. Chissà quando tutte queste persone potranno mai avere una casa: per il momento lo sforzo del sindacato è quello di organizzarli, renderli coscienti dei propri diritti. «Il 12 dicembre, in occasione dello sciopero generale, abbiamo organizzato 3 pullman per Reggio con 150 di loro: è stata la prima volta che hanno incrociato le braccia – spiega la sindacalista della Flai Cgil – Un’altra volta abbiamo fatto una fiaccolata per sensibilizzare la cittadinanza. E poi spesso solidarizzano con i cassintegrati italiani, vanno con loro in piazza quando rischiano di perdere il lavoro: così è accaduto ad esempio nella vertenza De Masi, di cui si è parlato tanto sui giornali». Mettere insieme immigrati e italiani, se si lavora con pazienza si riesce: «Io ci credo – conclude Celeste – Per questo facciamo sindacato di strada: anche un solo contratto ottenuto, un caporale arrestato, un’impresa disonesta sotto processo, è già un risultato. Per me è stato naturale decidere di non andare via e sono rimasta in Calabria: amo la mia terra, e credo che passo dopo passo la possiamo cambiare».