Figlio fortunato, il romanzo d’esordio di Filippo Polenchi (66thand2nd, pp. 176, euro 15), racconta dell’insensatezza della vita quotidiana, della noia asfittica nel piccolo paese di Anapola, tra il bar Notturno, la tavola calda di Stella e a volte il Blue Spanish, dove è possibile assistere a degli spogliarelli, o pagare per andare nei privé.

DEL RESTO, se la vita fosse governata dalla logica, Elio Lavatori non sarebbe mai stato vittima di un incidente. Il romanzo si apre con la notizia della morte di questo ragazzino di tredici anni, erede della famiglia Lavatori, sulla cui generosità si reggono le sorti di Anapola. Il padre Ettore ha deciso infatti di rientrare a vivere nel suo piccolo paese d’origine e di investire lì, per il bene dei suoi concittadini, aprendo l’azienda Sole.

Giona, uno dei protagonisti del romanzo, non approfitta della generosità dei Lavatori: ha troppe velleità artistiche per ridursi a fare il manovale o l’impiegato. Lui è stato a Roma, ha frequentato il Centro Sperimentale di Cinematografia, senza riuscire a diplomarsi, e sogna di fare un film, come tutti gli artisti mancati che si rispettino. Nella sua magnanimità, Ettore Lavatori lo ingaggia per fare le riprese della festa del tredicesimo compleanno di Elio e sarà in quell’occasione che il ragazzino verrà ucciso, investito dal trasportatore Mauro Coselli.

In questo nomen omen, che ricorda il cognome Cosini del protagonista de La coscienza di Zeno, c’è il destino di un uomo che non ha particolari colpe né pregi, ma che si ritrova a distruggere suo malgrado non solo una famiglia, ma un intero paese. La morte di Elio Lavatori, infatti, indurrà il padre Ettore a trascurare la sua azienda e quindi a ipotecare il futuro di molti abitanti di Anapola. Il romanzo racconta il tramonto della speranza: Elio avrebbe dovuto non solo restare in vita, ma crescendo continuare l’opera di sostegno al territorio, iniziata da suo padre.

«FIGLIO FORTUNATO» si basa su questo gioco di specchi, per il quale è Giona, il prototipo del fallito, ad assistere alla morte di Elio, l’astro nascente. Giona non solo non realizza le sue ambizioni artistiche, ma resta immobile: è rientrato da Roma ad Anapola, avrebbe dovuto ripartire e invece è rimasto a vivere a casa dei suoi genitori, o meglio nel loro motel fatiscente.
Incontriamo diversi personaggi tra cui spicca Silvia, la madre di Elio, di gran lunga la figura più interessante del romanzo. Giona trascorre con lei una notte di alterazione alcolica e psicologica potente, mentre la lettrice e il lettore la rincontrano verso la fine della narrazione, nel tentativo incompiuto da parte della donna di dare un senso alla sua nuova esistenza, dopo la morte del figlio Elio.

Il romanzo di Polenchi riesce nell’intento di rappresentare l’atmosfera e la mestizia che possono caratterizzare alcuni piccoli paesi. Sono perfette le descrizioni dei campari, dei karaoke, di Cora e della sua amica, che escono insieme da anni, senza avere molto in comune, tranne le serate alcoliche del fine settimana. L’obbiettivo è forse far riflettere su chi sia fortunato, tra chi è costretto a restare e chi viene liberato dalla morte.