Il «Viaggio all’Eden», come qualcuno chiamava il percorso che negli anni Settanta veniva compiuto per la prima volta da turisti molto speciali che si muovevano in folte comitive, era anche un viaggio nell’amore. Non solo nel «peace and love» degli slogan recitati scimmiottando il pacifismo americano ma un viaggio, anche, nell’amore carnale, bilaterale, singolo o collettivo, che si consumava con più facilità lungo quella strada che menava a Kathmandu e che era piena di curiosità, passione e una gran voglia di far l’amore in tutte le lingue del mondo.

Il sesso per altro te l’eri dimenticato dalla Jugoslavia in poi, per via che l’attraversamento dei Paesi musulmani imponeva ai maschietti un certo riserbo per non dire la cancellazione dell’universo femminile. Già in Turchia, paese laico ma ancora molto tradizionalista (come ha dimostrato l’ascesa di Erdogan), dovevi stare all’occhio. E così in Iran, benché lo Scià avesse lasciato libera la circolazione delle minigonne nella capitale: cominciavi a vedere sempre di più quei foulard che davano comunque alle donne un’aria dimessa, categoria umana che era stata relegata in un altro pianeta. In Afghanistan poi, l’altra metà del cielo non esisteva proprio. Benché ci si ostini a guardare ammirati certe foto della Kabul anni Settanta con qualche giovane universitaria a viso scoperto, fuori dagli uffici pubblici bastava la griglia opaca del chadri – o burqa, portato dal 95% delle donne – a farti capire che quel mondo era da dimenticare. L’arrivo nelle Indie cambiava un po’ le cose, ma non troppo.

Nel subcontinente indiano il viso delle donne era alla portata di tutti benché, musulmane o indù, un piccolo velo salisse dal sari a coprire i loro lunghi capelli corvini, simbolo universale di peccato. Nella patria del Kamasutra, dei templi con bassorilievi erotici e dove Shiva si era scelto come immagine augurale un enorme fallo, il sesso era, almeno pubblicamente, ancora un tabù. Non lo era grazie a Dio nell’allegra comitiva viaggiante. La favola delle due belle B., sorelle milanesi che avevan fatto perdere il sonno a tribù di viaggiatori, si inseguiva nei racconti di viaggio in cui il sacro (la filosofia induista, il messaggio di Gautama, l’inganno del mondo reale e la promessa di riscatto del piccolo o del grande veicolo) si mescolava al profano (bei ragazzotti e belle figliole, l’ultimo ricordo di tortelli con ricotta e spinaci, il penultimo bicchiere di vino, il Campari soda o la qualità del nero afgano, del verde pachistano, del blu nepalese. Hascisc naturalmente). Questi giovani viaggiatori che ormai avevano sulle spalle, chi più chi meno, già due o tre mesi di viaggio e che col procedere del percorso verso Kathmandu andavano cambiando fisionomia (vestendo rigorosamente con kurta e pijama, l’abito tradizionale indiano) amavano ed erano amati, distruggevano coppie e ne ricostruivano altre destinate a durare lo spazio tra una città e l’altra, tentavano avventure collettive o si rifugiavano in masturbazioni notturne solitarie, sollecitate da tutti quei capelli al vento che, al contrario delle donne indiane, la tribù femminile dell’Eden non risparmiava a nessuno. Tanto meno ai locali sui quali non sappiamo (ma immaginiamo) l’effetto che fece.

L’arrivo in India in effetti segnava una trasformazione. Se eri arrivato sin lì avevi passato il punto di non ritorno. In questo Paese enorme e affascinante dove la ruota del tempo sembra girare con ritmi propri e dove religione e magia permeano anche il più laico degli abitanti dell’Unione, la tua vita cambiava. Via i vestiti di casa, addio ai ricordi del bel paese d’origine. Ti sentivi altro, fortunatamente diverso e finalmente arrivato alle porte dell’Eden, del tutto differenti da come le avevi immaginate. La prima botta era il tempio d’oro di Amritsar, terra dei sikh, estesa tribù del Punjab che sfoggia un orientalissimo turbante, braccialetti e spadini che non possono mai essere levati, capelli raccolti a crocchia che non vanno mai tagliati, giganteschi baffi a manubrio che dovevano aver fatto l’invidia dei funzionari di Sua Maestà britannica che in India avevano stazionato per tre secoli. L’impronta britannica resta forte in quel benedetto Paese che pure mantiene, ancora oggi in tempi di omogenizzazione globalizzata, un’identità così prepotente che ti chiedi quanto l’India semmai non abbia influenzato gli inglesi che, quando la persero, compresero finalmente che senza la sua «perla» più bella l’Impero non sarebbe mai più stato lo stesso. Anzi, non sarebbe stato più.

Amritsar era un luogo magico e accogliente (al Golden temple potevi dormire e mangiare gratis) ma anche una terribile stazione del Viaggio all’Eden per coloro che avevano passato la frontiera con una scorta di «nero» afgano da rivendere a «tola» (12 grammi) in India, dove il fumo afgano era – specialmente nella ricca e affollata costa di Goa sotto Bombay – considerato una vera sciccheria. Ad Amritsar dunque trovavi anche appesa una lista dei prigionieri occidentali in attesa di riscatto dalle galere locali. Chi poteva andava a far visita, a lasciare qualche rupia e a…baciare in bocca gli sfortunati. Il bacio in bocca in realtà era l’unico modo per passare al prigioniero qualche grammo di fumo, magra ma dolce consolazione nelle lunghe giornate di attesa. Quel passaggio di consegne era in effetti possibile grazie ai facili costumi per cui noi occidentali eravamo noti. I poliziotti non sospettavano e si trasformavano semmai da guardiani in guardoni.

Dopo la tappa sikh il viaggio proseguiva per New Delhi, una città enorme e non priva di fascino dove l’allegra carovana aveva trovato rifugio soprattutto in due zone della città. A Paharganji, a due passi dalla centralissima Connaught Place, o a Old Delhi, la città vecchia dominata dalla Jama Masjid e dal Forte rosso entrambi d’impronta mogul, la dinastia musulmana che aveva dominato l’India prima di Londra.
Delhi, come Istanbul, come Kabul, poteva essere una sosta di due-tre giorni, una più lunga permanenza di una settimana ma anche una fogna eterna, di cui racconteremo più avanti. Altrimenti era il luogo deputato ad almeno tre grandi direttrici: a Sud verso Bombay e Goa per coloro che avrebbero «svernato» sulle spiagge occidentali della piccola ex enclave portoghese. A Est verso Benares, città sacra e tappa intermedia prima di arrivare a Kathmandu. O verso Nord, dove una deviazione sulla rotta classica ti portava verso le aree di popolazione tibetana: a Leh, capoluogo del Ladakh, o a Dharamsala, domicilio eletto dai rifugiati esiliatisi col Dalai lama per sfuggire all’occupazione cinese. Un viaggio nella compassione, la via maestra insegnata dai monaci con l’abito amaranto e zafferano.

Benares è una città che non si può descrivere. Va vista e basta. Almeno una volta nella vita. C’è tutto e il contrario di tutto: la santità, l’orrore, la pietà e la violenza, l’accettazione della vita e la marcatura stretta di un’appartenenza religiosa o etnica. Ma quel paesaggio sui ghat, i grandi basamenti di cemento gettati sul Gange come enormi gradini deputati a rendere grazia agli Dei, non si può raccontare e nemmeno fotografare o filmare. Va vissuto, passeggiando tra quelle folle di pellegrini in cui, finalmente, ci si confonde e ci si perde. Oggi come ieri e con la sensazione che sarà così anche domani. Ma attenzione, non sempre tutto fila come da manuale. Per purificarsi, dice la sacra legge che ti vorrebbe liberare dall’ingannevole ciclo vitale del samsara, l’acqua del Gange bisogna berla, farla roteare nella bocca, lasciare che si impadronisca del tuo corpo. A molti però fruttò un’incredibile diarrea che qualche caso, benché si dicesse che il Gange fosse così zozzo che nessun virus o microbo potesse viverci, poteva trasformarsi in tifo.

Con questa sensazione tornammo a Benares, detta anche Banaras o Varanasi, molti anni dopo. L’antica moschea che domina il primo dei ghat della città era adesso un perimetro circondato da filo spinato. Nella città dei santi, dei guru, dei sadhu che dedicano la loro vita e meditare vestiti solo di uno straccio in compagnia di un bastone a tridente, si era verificato un inferno, una guerra tra integralisti indù e musulmani – che in gran numero vivono in quella città – senza che gli dei si fossero mossi a pietà e avessero impedito che la gente gettasse benzina dalle finestre, che armasse bastoni e lance, che trafiggesse residenti forse il giorno prima salutati con affetto o con disprezzo. L’India era ed è anche questo. Lo sapeva Gandhi, che digiunava per riconciliare i fratelli, lo sapeva Londra che seppe come sfruttare il «comunalismo», lo sanno i governanti attuali per i quali la rivalità tra le due comunità è sempre un pericolo. O una risorsa.

Per andare alle radici dell’odio affittammo una macchina per andare ad Ayodhya, una delle sette città sacre dell’India, dove una moschea è stata distrutta nel 1992 in nome di un supposto preesistente tempio indù. Il viaggio – su una vecchia Ambassador dagli interni di cuoio, ultimo lascito dell’industria automobilistica britannica – si svolgeva sulla Grand Trunk Road (Gtr), la camionabile che attraversa tutta l’Asia da Chittagong a Kabul e che collegava Londra a Calcutta, strada che mezzi animali o grandi Tir solcano ormai da millenni.

Benché dal Viaggio all’Eden fossero passati diversi decenni, quel tragitto in macchina fu rivelatore. Nonostante l’India sia oggi una superpotenza mondiale, tra le grandi leader della meccanica in Asia, produca software e cervelli dominando parte del mercato internazionale, sulla Gtr il tempo si era fermato: carretti con cavallo, gente in bicicletta, famigliole a piedi. La «Shining India» della propaganda governativa (soprattutto dei nazionalisti) sulla Gtr era solo un sogno. L’India profonda sembrava rimasta il mistero che avevamo visto quarant’anni fa.

(7 – continua. Le altre puntate sono uscite il 20, 21, 23, 27, 29 e 31 agosto)