«Quando è stata l’ultima volta che hai aiutato qualcuno del sud di Tel Aviv?». «Spero che stuprino tua figlia». «Torna nel tuo quartiere snob». A Tel Aviv sud come a Tor Sapienza, est di Roma, il mondo si rivela ancora una volta paese. A venire interpellata così è infatti una delle dirigenti di Hotline, associazione per i diritti umani israeliana che lavora con i migranti che varcano il confine della terra santa dopo essere scappati dai loro paesi natii solo per scoprire di essere entrati in un ulteriore incubo, e che come in Italia sono mal sopportati dagli abitanti dei quartieri dove si trovano i centri di accoglienza.

La regista Silvina Landsmann ha seguito gli operatori dì Hotline per mesi, «ho girato da settembre a dicembre per almeno tre o quattro giorni alla settimana – racconta – perché da subito sono stata completamente assorbita dal loro lavoro», ed ora a Berlino, nella sezione Forum, presenta il frutto di questa impresa: il documentario Hotline. Con lei a Berlino ci sono Reut Michaeli, direttrice dell’associazione, ed Asaf Weitzen, a capo del suo dipartimento legale ed incaricato di far rilasciare i migranti incarcerati solo in quanto «clandestini». Il documentario ce li mostra nelle loro occupazioni quotidiane: ricevere nei loro uffici i migranti con le loro richieste, occuparsi della loro scarcerazione, perorare la loro causa in parlamento. «Gli attivisti di Hotline sono molto presenti nella società israeliana – spiega Landsmann – i giornali riportano spesso le loro attività, specialmente quando si sono occupati del gigantesco problema del traffico di donne per il mercato sessuale. Inoltre volevo fare un film su un’organizzazione non governativa da tanti anni, perché hanno un ruolo fondamentale nella democrazia. Per cui ho pensato che sarebbe stato interessante osservare come funziona, chi sono le persone che ci lavorano, come facciano ancora a credere che i loro obiettivi siano realizzabili in un ambiente fatto di persone stanche ed interessate solo al proprio successo personale».

Un caso tipico riportato dal suo film è quello di una donna Etiope in carcere da due anni per il solo crimine di aver oltrepassato la frontiera israeliana illegalmente. Il marito ed Asaf vanno a pagare la cauzione, ma il funzionario con cui hanno a che fare temporeggia, li ostacola, pensa che «potrebbero mettere una bomba alla Stazione Centrale».
«Ma è come in La banalità del male di Hannah Arendt – osserva l’avvocato – non stiamo parlando di una persona cattiva, un nemico: non è particolarmente intelligente né corretto, ed è anche piuttosto razzista. Ma più di tutto ha paura di perdere il suo lavoro». «Dopo che questa donna è stata scarcerata hanno messo in prigione il marito – racconta Asaf di cosa è successo a telecamere ormai spente – ho fatto rilasciare anche lui, ma ad entrambi è stato rifiutato lo status di rifugiati, quindi vivono illegalmente in Israele e in ogni momento potrebbero essere arrestati o deportati, senza che noi possiamo fare nulla».

Quelli che in Italia chiamiamo impropriamente clandestini, in Israele si chiamano «infiltrati», in un rispecchiamento reciproco dei due paesi che contempla anche il tabù dello ius soli. In Israele, ci racconta Hotline, l’unico genere di visto che viene rilasciato agli immigrati consente loro di non essere deportati, ma non dà il diritto a lavorare, l’accesso al welfare o ai servizi sanitari. I visti da rifugiati lo consentirebbero, ma sono resi de facto inaccessibili dalle stesse leggi del paese. Questo incubo di burocrazia kafkiana si manifesta interamente nel corso delle sedute della Knesset, il parlamento, in cui il documentario di Landsmann ci porta durante il dibattimento della Anti Infiltration Law, ed in cui le richieste e le obiezioni degli attivisti di Hotline vengono sistematicamente aggirate o convenientemente non comprese.

«Non è una questione di stupidità ne di malvagità – commenta Reut Michaeli – ma piuttosto di come è strutturato il sistema: i politici in parlamento capiscono perfettamente che compito hanno al suo interno, e si impegnano a supportarlo. Vedono il loro ruolo come funzionale al sistema stesso».La loro sola preoccupazione, infatti, sembra essere quella di «fare in modo che gli infiltrati desiderino lasciare Israele». E poi, ovviamente, c’è il proverbiale elefante nella stanza: la questione palestinese. «Perché qualunque altro problema possa essere risolto bisogna prima affrontare la questione palestinese», osserva Landsmann. «È come un sentiero scivoloso – conclude Michaeli – se non si danno diritti ai palestinesi difficilmente succederà con la comunità dei rifugiati».