Suspiria di Luca Guadagnino è il film dell’anno. Quello che sta finendo e quello che inizia – difatti in sala arriva l’1. Ed è un bel segno che il rito di passaggio avvenga con questo magnifico film; non un remake dell’«originale» di Dario Argento ma una reintrepretazione che attraversa il nostro contemporaneo. Un omaggio amoroso a un regista e a una visione spaventosa – con la scommessa di ritrovare (ricreare) la paura provata da ragazzino.

FORSE è per questo che se Argento si immergeva nel rosso lisergico di Tovoli, Suspiria di Guadagnino, ambientato nella Berlino divisa dal Muro, mentre la radio martella sulla Raf e il rapimento di Hans Martin Schleyer, presidente della confederazione dell’industria tedesco occidentale (e membro del partito nazista), si muove sulla soglia dell’inconscio, sotto e sopra la crosta terrestre, nelle sue viscere ignote e nelle sue più morbide apparenze. E lo strumento che lo guida è il corpo, e la sua performance estrema, grande protagonista teorico a partire dalle esperienze artistiche dell’epoca: terreno di scontro, viscere, fluidi, ossa spezzate, «decostruzione» di generi. Il corpo danzante delle streghe posseduto da una forza che è capovolgimento di linguaggi e generi e codici contro l’oppressione.

MA NON È QUESTO anche il cinema, inconscio collettivo, corpo, luce, ombra? Così abbiamo deciso di aprire a più voci su un film che è anche, in tempi di (auto) censure una potente affermazione di libertà creativa. E di piacere dell’immagine, anch’esso sempre è più raro.