C’è qualcosa di misterioso nel modo in cui un libro, una canzone, un film si diffondono. La storia della cultura è fatta di appuntamenti mancati e clamorose riscoperte, di questa casistica fa senz’altro parte la ormai classica Hallelujah di Leonard Cohen. È proprio intorno al percorso non lineare della canzone che Dan Geller e Dayna Goldfine hanno costruito il documentario Hallelujah: Leonard Cohen, A Journey, A Song presentato fuori concorso alla Mostra del cinema di Venezia. Seguendo questo filo scorrono sullo schermo immagini e testimonianze che abbracciano l’intera carriera del poeta-cantautore; seppur con alcune mancanze e un approccio un po’ didascalico, quando ascoltiamo le sue parole, cantate o meno, non possiamo non riempirci di grazia.

NELLE CONVERSAZIONI con il critico di Rolling Stones Larry Sloman scopriamo che Cohen impiegò ben sette anni a comporre il testo di Hallelujah, di cui esistono innumerevoli versioni. In effetti la canzone racconta la compresenza delle sue due anime: quella spirituale ebraica e quella terrestre, dedita al piacere. Una prima stesura venne incisa per il disco Various positions del 1984, il suo produttore, John Lissauer, ricostruisce l’incredibile rifiuto da parte della Columbia di distribuire l’album negli Stati uniti perché ritenuto non in linea con le esigenze di allora. Ed è forse proprio per una risposta del destino a questo sfregio del mercato che lentamente, attraverso la voce di tanti altri, Hallelujah diventò una canzone mitica e universale.

FU BOB DYLAN a sdoganarla eseguendola dal vivo, la riprese poi John Cale al pianoforte fino ad arrivare all’interpretazione più nota, quella struggente di Jeff Buckley. Il suo autore originale nel frattempo si era allontanato dai palchi, le crisi depressive lo avevano spinto ad intraprendere un percorso zen. Nel 2008 poi il colpo di scena: le esibizioni nei talent show spingono Hallelujah al primo posto in classifica, proprio quando Cohen decide di tornare ad esibirsi. Le immagini degli ultimi concerti sono intense tanto quanto quelle dei primi, d’altronde già a quarant’anni il poeta canadese dichiarava: «Non aspetto altro che diventare vecchio», forse nessun altro ha saputo indossare la vecchiaia con altrettanta eleganza, come fosse il suo tipico vestito nero con cravatta e cappello. «Grazie amici, vi abbiamo dato tutto ciò che avevamo», con queste parole Leonard Cohen abbandonava il palco, siamo certi che aveva ragione.