«Prima viene l’uomo poi il sistema, anticamente era così. Oggi è la società a produrre e l’uomo a consumare», questo è l’incipit del testo Arte Povera. Appunti per una guerriglia del 1967, tra i più celebri della critica d’arte italiana del secondo Novecento. Il suo autore, Germano Celant è morto ieri all’età di ottant’anni, vittima del Covid-19.

IL GIOVANE che alla vigilia del Sessantotto si schierava contro il sistema, termine diffuso in quegli anni per indicare l’organizzazione imposta dal potere ai fini della sua conservazione, è stato uno dei più autorevoli protagonisti del sistema internazionale dell’arte. Curatore del Guggenheim di New York (1989-2008), direttore artistico della Fondazione Prada (dal 1995 sino ad oggi), firma de L’Espresso e di molte riviste specializzate, curatore della Biennale di Venezia (1997) e di un’enorme quantità di mostre sparse sui diversi continenti e con artisti di tutto il mondo, autore anche di pubblicazioni numerose e cosmopolite.

Il sistema dell’arte che collega tra loro istituzioni prestigiose è l’espressione di un potere e in quanto tale deprecabile o è l’esercizio di un giudizio che contribuisce a garantire la qualità della cultura? La biografia di Celant potrebbe fornire dati interessanti per tentare di dare una risposta a questa domanda. Con più facilità, e credo senza il pericolo di smentite, la stessa biografia svela i tratti di un’impresa epica. Grandiosa, infatti, quasi commovente, è stata la sua capacità di valorizzare il territorio italiano, gremito di artisti ma privo di quella economia che negli ultimi cinquant’anni ha acquistato un’importanza decisiva. Non è anche questo contraddire il sistema?

Celant ha lavorato per l’arte italiana come per quella internazionale in mille modi diversi, ma accomunati da una logica e da una coerenza che non è possibile non vedere nella filigrana della sua carriera. Questo sì, forse, smentisce i suoi propositi giovanili di «guerriglia».

GENOVESE, formazione da storico dell’arte e allievo prediletto di Eugenio Battisti che gli insegnò a dilatare il suo campo di indagine e lo chiamò a collaborare a Marcatré rivista eccezionalmente aperta a discipline diverse. Negli anni in cui la società dei consumi impose agli artisti di creare immagini incisive e mordenti, da giovane critico militante creò l’Arte Povera, un capolavoro di comunicazione, fondata su idee in grado di cogliere, in una vista di insieme, il lavoro di artisti di natura diversa, tutti destinati a rivelarsi, su scala globale, tra i migliori del secondo Novecento: Giovanni Anselmo, Alighiero Boetti, Luciano Fabro, Mario Merz, Jannis Kounellis, Giulio Paolini, Pino Pascali, Giuseppe Penone, Michelangelo Pistoletto, Gilberto Zorio, Marisa Merz ed Emilio Prini. Capì l’importanza di dialogare con le grandi figure della critica internazionale e con loro inventò una nuova professione, quella del curatore, amico degli artisti, perennemente in viaggio, il cui lavoro, oltre che nella scrittura critica, trova l’espressione più compiuta nella realizzazione di mostre, le istituzioni democratiche dove la cultura contemporanea incontra i suoi destinatari.

NEL 1971 dichiarò sciolta la compagine dell’Arte Povera, che gruppo, effettivamente, non era mai stato e si impegnò in un lavoro di raccolta e di archiviazione rivolto alle più recenti forme d’arte il cui carattere prevalentemente processuale o effimero rendeva l’operazione particolarmente importante e necessaria. Fondò «Ida», Information, Documentation, Archives, il cui acronimo è forse un omaggio alla sua compagna dell’epoca, Ida Gianelli, che costituisce il primo nucleo di un archivio prezioso i cui giacimenti hanno dato nel tempo molti importanti prodotti editoriali, come la raccolta di fonti Precronistoria (ispirato dal lavoro della critica americana Lucy Lippard) o Off Media dedicato alle forme d’arte incarnate nei media non tradizionali.

A partire dagli anni Ottanta, rispose all’interesse diffuso verso il passato, storicizzando la sua Arte Povera con una serie di mostre e di libri a trama prevalentemente documentaria e descrittiva. Curò grandi mostre monografiche, da Jim Dine a Louise Nevelson, da Claes Oldenburg a Dennis Oppenheim, molte dedicate agli artisti delle generazioni più giovani, fino alla più recente e commovente mostra di Jannis Kounellis da poco scomparso. Nelle monografie gradualmente sperimentò un modo di accostarsi agli autori riservando attenzione al dato biografico, mentre costante e radicata si è rivelata la prassi di contestualizzarne il lavoro. Esemplare in questo senso il catalogo della mostra Identité Italienne del 1981, dove in luogo del testo critico e delle tavole delle opere dei diciotto artisti chiamati a rappresentare l’arte italiana al Centre Pompidou, si trovano 645 pagine di cronologia riferita a un ampio spettro di vicende culturali e politiche italiane e ai macro avvenimenti mondiali.

IL CAPITOLO più recente della sua biografia professionale lo ha visto proporsi come storico delle mostre d’arte e come curatore in grado di rievocarle. Lo ha fatto inizialmente con When Attitudes Become Forme la mitica rassegna curata da Harald Szeemann nel 1969. Il percorso di Celant si chiude così con una mossa magistrale, un capolavoro di strategia culturale approntato, forse, con la consapevolezza che critica, storia e giudizio non sono separabili: Celant capostipite dei curatori ne è diventato lo storico.