In una delle «lezioni» del suo Corso di educazione immorale, Mishima Yukio afferma che, più che i veri malvagi di professione sono spesso le persone oneste: sono i pavidi o i vigliacchi a compiere i peggiori misfatti. Lungi dall’essere premeditati, molti crimini sono il frutto repentino di scatti d’ira o dell’incapacità di resistere a una tentazione momentanea; sono indotti, in sostanza, dall’ambiente o dalle circostanze, e non accuratamente pianificati da una mente scellerata.
Per Mishima questa considerazione fa da spunto a una riflessione sull’opportunità di dedicarsi a più azioni immorali invece che a una sola, così che tra esse si crei un certo equilibrio e nessuna prevalga. La stessa considerazione sembra anche adatta a riassumere il romanzo di Yoshida Shuichi, Akunin, ora pubblicato da Feltrinelli nella bella traduzione di Gala Maria Follaco con il titolo L’uomo che voleva uccidermi (pp. 336, euro  17,00).

Scrittore molto prolifico ma purtroppo ancora poco tradotto al di fuori dell’Asia orientale, Yoshida arriva per la prima volta in Italia dopo avere esordito nel 1997, collezionando nel tempo una serie di importanti riconoscimenti letterari tra cui il prestigioso premio Akutagawa, nel 2002. Cinque dei suoi romanzi, tra cui lo stesso Akunin, sono stati trasposti in lungometraggi (molto apprezzati in Giappone ma proiettati in Europa e Stati Uniti solo nell’ambito di festival cinematografici) che hanno contribuito a consolidarne la popolarità. Senza dubbio, una consistente parte del suo successo si deve alla sua abilità nel trasferire sulla carta l’indole della cosiddetta lost generation, nata tra gli anni settanta e gli ottanta e vittima degli effetti della stagnazione economica, proponendo personaggi all’apparenza semplici, e tuttavia caratterizzati da una psicologia tutt’altro che lineare.

Da questo punto di vista, L’uomo che voleva uccidermi è un romanzo paradigmatico. Costruito come un giallo, è in realtà un’esplorazione della natura umana, una parabola dell’egoismo, della solitudine e dell’incomunicabilità che caratterizzano una larga parte della società giapponese contemporanea. Fin dalle prime pagine del romanzo Yoshida definisce i termini della questione: un giovane manovale di Nagasaki viene arrestato con l’accusa di aver strangolato e ucciso Ishibashi Yoshino, impiegata in una compagnia di assicurazioni a Fukuoka. L’accusa è chiara, ma ricostruire la dinamica dell’omicidio non si dimostra un’impresa semplice. È stato davvero Yuichi, gran lavoratore e nipote premuroso, a ucciderla? E perché Masuo Keigo, il ragazzo che Yoshino diceva di dover incontrare, è irreperibile? Ma soprattutto: chi è Yoshino, e cosa nasconde?

L’entrata in scena di una seconda protagonista, Mitsuyo, affretta la vicenda verso una conclusione in cui vengono offerti al lettore più dubbi che risposte: la verità sembra infatti sfuggire tra le luci e le ombre proiettate sui vari personaggi. In questo il romanzo ricorda un famoso racconto di Akutagawa Ryunosuke intitolato Nel bosco, del 1922, al quale a sua volta si ispira il film Rashomon di Akira Kurosawa – in cui il tentativo di ricostruire la dinamica che ha portato all’uccisione di un uomo naufraga di fronte alle testimonianze discordanti dei vari attori coinvolti. In un altro romanzo breve di Yoshida un personaggio descrive Rashomon come un film che tratta dell’egoismo umano, e proprio l’egoismo sembra essere il motore principale nell’Uomo che voleva uccidermi.
Dal capo di Yoshino, preoccupato per il buon nome della filiale della compagnia assicurativa di cui è direttore, alla ex fiamma di Yuichi, tormentata dal proprio voltafaccia, ogni personaggio è mosso da un bisogno la cui soddisfazione diventa prioritaria, a discapito di qualunque scrupolo etico. Se dunque, in virtù della sua azione distruttiva, l’assassino è il malvagio per eccellenza, la cattiveria è una caratteristica trasversale e comune a tutti i personaggi, tanto da far dubitare il lettore su chi sia veramente il colpevole.
D’altronde l’ambiguità è presente anche nel titolo originale: grazie all’assenza delle categorie grammaticali di genere e numero nella lingua giapponese, «malvagio» (akunin) può indicare un uomo o una donna, o addirittura più persone. Il romanzo è infatti un compendio di piccole e grandi miserie umane che conducono inevitabilmente, suggerisce Yoshida, ad azioni e comportamenti spietati. Sullo sfondo non c’è né la Tokyo sfavillante e affollata né un Giappone patinato e denso di tradizione bensì la provincia della regione del Kyushu, quasi anacronistica nella rarefazione dei convenience store, incarnazioni della modernità pronta all’uso. La narrazione si dipana lungo la strada che collega le Fukuoka e Nagasaki, attraversando la provincia di Saga. È la strada che porta Yuichi da Yoshino, ed è la stessa che percorrono anche Yuichi e Mitsuyo.

Nel mezzo, da qualche parte, c’è il valico di Mitsuse, dove viene rinvenuto il cadavere di Yoshino. È una strada di montagna, impervia e solitaria, che l’apertura di un più moderno e pratico tunnel ha reso superflua. Ma è anche una metafora delle esistenze dei tre protagonisti, marcate dalla solitudine e dall’estraniazione. Esistenze dimenticabili e riportate in luce, come il valico, soltanto da un avvenimento tragico.