Ricondotti al filone faulkneriano della letteratura americana, i romanzi di John Edgar Wideman raccontano perlopiù di uomini che vivono a metà strada tra il mondo nero e il mondo bianco – A Glance Away, del 1967, e Hurry Home, del 1970 – oppure le vicende di una delle prime famiglie del ghetto di Pittsburgh –The Homewood Trilogy scritto fra il 1981 e l’83 – la stessa città in cui Wideman, nato a Washington nel 1941, era vissuto e dalla quale era fuggito, grazie a una serie di borse di studio.

Il libro che ora minimum fax manda in libreria, uscito nel 1984 e titolato Fratelli e custodi (traduzione di Delfina Vezzoli e Michele Ulisse Lipparini, pp. 387, euro  17,00) è il primo apertamente autobiografico. Sposato con una donna bianca, e diventato al tempo stesso romanziere di successo e professore di letteratura, Wideman si era limitato – fino al 1976 – a tornare a Pittsburgh solo con l’immaginazione, raccontando con una prosa ricca di flashback e di punti di vista che si rincorrono, come gravasse sulla psiche del protagonista la consapevolezza della storia schiavista e razzista americana. Con Fratelli e custodi la distanza di sicurezza offerta dalla fiction si accorcia e Pittsburgh torna improvvisamente vicina, reale, ingombrante.

La vicenda ha inizio il 10 febbraio del 1976, quando Robert Wideman, il fratello minore dell’autore, ricercato dalla polizia per un omicidio avvenuto tre mesi prima, «appare» improvvisamente a Laramie, in Wyoming, la città in cui Wideman vive con la famiglia e insegna all’università. «Robby era mio fratello, ma questo accadeva tanto tempo fa, in un altro paese», scrive Wideman trincerato all’interno della sua Volvo. Non è il disinteresse a farlo nascondere, ma il fatto stesso di essere stato scoperto, perché anche lui come il fratello è un fuggiasco: da vent’anni scappa «da Pittsburgh, dalla povertà, dalla negritudine» e da una vita che se non avesse a suo tempo deciso di andarsene «in esilio… con i bei voti», scopriremo che avrebbe potuto essere simile a quella di Robby.

A ricondurre Wideman, cui è appena nata una figlia, al punto di partenza sarà proprio un commento del fratello: «Mio dio, è una foto in miniatura di mamma». E lui: «Non appena Robby fece il collegamento, la sua evidenza, la sua incontestabilità, la sua prodigiosa verità mi colpirono». Non si fugge mai abbastanza lontano, questo il suo pensiero. Robby verrà arrestato il giorno dopo, mentre tenta di proseguire la fuga in Colorado. Ma dovrà fermarsi anche Wideman. I fatti accaduti nelle ultime ore gli impongono di fare i conti con il proprio senso di colpa – come ha potuto abdicare al ruolo di fratello maggiore? – e di interrogarsi sulla capricciosità dei destini – perché io mi sono salvato e lui no?

Inizialmente, nel tentativo di capire la vita di Robby, proverà ripetutamente a dedicargli un racconto, a farne cioè un suo personaggio, ma il risultato sarà ogni volta sfocato e artefatto. Non poteva andare altrimenti, del resto. Wideman non ha mai saputo nulla di suo fratello, del suo sogno di diventare il re degli spacciatori del quartiere, e non sa ascoltare quel che all’altro preme dire.
Fratelli e custodi comincia a prendere forma solo quando Wideman accetta di far parlare anche Bobby e si impone di ascoltare anche le altre voci che lentamente riemergono dal passato. Le incertezze autoriali ed emotive a quel punto si sciolgono in una prosa fluida e labirintica come i pensieri che accompagnano l’elaborazione di un progetto letterario ambizioso, finalizzato a ricostruire la conversazione tra due adulti che stanno finalmente imparando a conoscersi.

Le voci di John e quella di Robby, che con il progredire delle pagine prendono ad alternarsi per raccontare insieme una storia comune, offrono a Wideman l’occasione per misurarsi con la grande tradizione narrativa afroamericana: l’autore la evoca richiamandosi sia al romanzo militante di Richard Wright (in particolare a Paura, del 1940) sia risalendo alla slave narrative, genere del quale Fratelli e custodi riprende, per esempio, la cornice – John introduce la storia di Robert come in passato gli abolizionisti presentavano il racconto dello schiavo fuggiasco –– sebbene qui il percorso vada dalla libertà alla prigione.

La storia dell’ennesimo ragazzo sfrenato del ghetto, con Wideman non rischia mai di aderire a possibili cliché, né si incammina per derive sociologiche. I pensieri dei due fratelli, che riflettono sulle coincidenze tra il sistema carcerario statunitense e l’oppressione schiavista, si affidano il più delle volte a una voce sognante e visionaria che tuttavia recupera rapidamente lucidità solo quando è il momento di osservare e giudicare con spietatezza se stessi.

Riflessi di questa vicenda biografica torneranno in altri romanzi. Per esempio in Reuben (1987) dove il fratello «rubato» del protagonista viene assimilato a un arto fantasma, oppure nel recente Writing to Save a Life (2016), dove la storia della prigionia e della messa a morte, nel 1945, del soldato semplice Louis Till, dopo essere passata per i Canti pisani di Ezra Pound e aver sfiorato la storia del Movimento per i diritti civili, approda alla scrivania di Wideman e si trasforma in una lunga meditazione sulla brutalità della storia americana, che lega il destino dei padri a quello dei figli.