«Vorkuta capitale del mondo» dice un vecchio adagio russo. Veramente difficile crederci arrivando in questa cittadina al 67esimo parallelo, estrema propaggine della repubblica Komi, la città più a nord dell’Europa. Davanti alla stazione ferroviaria caracolla un branco di cani, tutt’intorno stabili residenziali e fabbriche abbandonate da tempo al loro destino. Bisogna conoscere la storia di questo luogo per sapere perché viene chiamato la «capitale del mondo».

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Vorkuta è la città-gulag più famosa della Russia. Qui, nel gulag più famoso assieme a quello della Kolyma, tra il 1932 e il 1956 lavorarono e morirono cittadini di 47 nazionalità diverse per tirare fuori dalla terra quel carbone necessario ai piani quinquennali sovietici. L’universo concentrazionario è quel luogo in cui ci «si persuade di giorno in giorno che si può vivere senza carne, senza zucchero, senza vestiti, senza scarpe, ma anche senza onore, senza coscienza, senza amore, senza dovere» ha scritto Vaarlam Shalamov ne I racconti della Kolyma. Un mondo dove «tutto viene messo a nudo, ma l’ultimo denudamento è terribile».
«Stalin voleva dimostrare che i comunisti possono tutto, perfino produrre qualcosa in un ambiente impossibile dove d’inverno le temperature scendono a -55 gradi, le ore di luce si riducono a due e la tundra è avara per chi la vuole coltivare» ci dice Alexander Kalmykov, geologo, emigrato qui dalla Siberia nel 1968.

I DEPORTATI VIVEVANO in baracche e inizialmente tirarono fuori il carbone a mani nude. Della prima spedizione di 1.500 prigionieri ne sopravvissero solo 84. Poi nacque la città con tanto di teatri e jazz club per allettare il tempo libero dei guardiani e dei lavoratori liberi. Tra i deportati anche molti italiani. Il più celebre dei quali, Dante Corneli, un operaio comunista accusato di trotskismo, racconterà poi la sua tragica vicenda nel libro Il redivivo tiburtino, pubblicato da La Pietra nel 1977.

Nel 1953, al riflusso dello stalinismo, i deportati si ribellarono, entrarono in sciopero e chiesero migliori condizioni di lavoro. Fu «l’insurrezione di Vorkuta»: i guardiani dalle torrette del campo di concentramento aprirono il fuoco sugli operai, ne uccisero 53 e ne ferirono 127. Nel prato in cui vennero sepolti alla meglio, si aggiunsero in seguito altre croci, altri fucilati, altri involontari costruttori del «paradiso socialista». Vennero poi i tempi dello smantellamento dei campi e la fine del lavoro schiavistico in cui Kruschev e Breznev fecero di tutto per convincere la forza-lavoro a trasferirsi a Vorkuta. Salari due volte superiori a quelli dei docenti universitari di Mosca e dei sanatori in Crimea, se si accettava di lavorare sottoterra a Vorkuta.

«Mio padre fu uno di quelli» ci ha detto Sergey nel lungo viaggio sul treno che ci ha portato da Syktyvkar a Vorkuta. «36 anni sottoterra, ora so che in Europa in miniera ci si va per legge al massimo per 10 anni. È morto due anni dopo essere andato in pensione, come tanti altri suoi compagni» ci tiene a sottolineare. «Ero sempre il bimbo meglio vestito, non ci facevamo mancare niente, in vacanza andavamo in crociera sul Mar Nero, ma alla fine tutto ciò si può scambiare con la vita?» si chiede ancora Sergey.

NE SONO PASSATE di generazioni e i giovani di Vorkuta non sanno quasi nulla delle loro radici. «Ne ho sentito parlare da qualche anziano di quella vicenda» dichiara Viktoria 17 anni, cameriera nell’unico sushi bar della città e che sogna di imparare l’inglese e andarsene.

A Vorkuta ci sono ancora oggi solo le miniere di carbone e solo quelle, ma anche quelle si riducono sempre più. Nel 1988 erano 19, ora solo 4, la produzione di coke è passata da 28 milioni di tonnellate a 7. Dal 1992 la popolazione si è ridotta e meno della metà.

Oggi vivono a Vorkuta solo 59mila persone. «Eppure il nostro carbone è di altissima qualità, non viene utilizzato come fonte energetica ma nell’industria metallurgica» sostiene Viktor Telnov direttore del College economico-minerario della città. Ci accompagna a visitare una riproduzione esatta di una miniera di carbone che la scuola ha costruito nei sotterranei per la formazione e le esercitazioni degli studenti. «Vengono a vederla da tutto il mondo» ci dice con orgoglio. Chissà se sopravviverà questo istituto modello alla inesorabile deindustrializzazione che avanza.

Nel 2016 in una miniera a nord della città morirono sotto terra 36 minatori. La miniera è stata chiusa e l’inchiesta è ancora in corso ma nessuno crede che qualcuno alla fine pagherà: resta una grande lapide con le foto di questi ragazzi e fiori freschi che qualcuno si premura spesso di sostituire.

IL PROBLEMA DEL FUTURO di Vorkuta è anche, o soprattutto, di volontà politica e per usare una parolaccia di tasso di profittabilità dell’impresa. Severstal, l’holding che è proprietaria delle 4 miniere di Vorkuta, è controllata dall’oligarca Alexey Mordashev. Negli anni Mordashev ha contenuto al massimo investimenti e innovazione, chiudendo una dopo l’altra le miniere in via di esaurimento e sembra non abbia nessuna intenzione di rianimare l’economia della città.

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Una politica a bassissimo rischio d’impresa per un’azienda che fattura 7mila 700 miliardi di dollari l’anno e ha fatto diventare Mordashev, secondo Forbes, il quarto uomo più ricco di Russia con un patrimonio personale di 20,5 miliardi di dollari. «Eppure qui ci sarebbe carbone di alta qualità per almeno altri 300 anni» dichiara il geologo Kolmykov. Ma nessuno ha intenzione di scommettere su questa isola nella taiga. La Severstal dona 300mila dollari l’anno alla città che non bastano neppure per riempire i crateri che si aprono nelle strade o per installare banchine di attesa dei bus, decenti.

La via Lenin, una striscia d’asfalto a L rovesciata, taglia in due la città, intorno quartieri proletari neppure asfaltati: in un piccolo campo giochi su cui incombono caseggiati scrostati una bimba piange sconsolata e dei ragazzini passeggiano indossando snikers di sottomarca. «Di certo non sembra di trovarsi a Rio De Janiero» per dirla con Ostap Bender il briccone de Le dodici sedie, il capolavoro di Ilf e Petrov.

A rendere incerto il futuro di Vorkuta è il fatto che ormai è difficile trovare gente disposta ad andare sottoterra seppur per un salario di tutto rispetto per la Russia perché le malattie professionali e gli incidenti sul lavoro sono la norma. «La stragrande maggioranza dei 6mila minatori di Vorkuta sono migranti. Vengono qui a lavorare soprattutto dalle repubbliche centroasiatiche e dall’Ucraina, attratti da salari che vanno dai 1.500 ai 2.000 euro al mese, 4 alle 5 volte superiori la media nazionale. Ma i soldi li mandano tutti a casa, qui resta ben poco» afferma Igor Kurbatov, il capo del sindacato indipendente dei minatori.

NON SI VEDONO IN GIRO per la città minatori. Al mattino vengono raccolti dagli autobus della Severstal e la sera riaccompagnati a casa. «La giornata lavorativa è di 6 ore ma non tiene conto del tempo della visita medica quotidiana che comprende l’alcool test e la discesa e la risalita dai pozzi» continua Kurbatov. D’inverno ciò significa non vedere mai la luce del giorno che fa capolino solo tra le 12 e le 14. L’organizzazione sindacale è forte a Vorkuta ma sconta limiti di corporativismo.

«Organizziamo la metà dei minatori, circa 3mila lavoratori: le conquiste salariali vanno a vantaggio anche dei non iscritti ma tutto il resto, comprese le prestazioni mediche di una certa qualità, sono riconosciute ai soli iscritti» sostiene convintamente il sindacalista. Una politica che ha permesso di guadagnare posizioni e benefit ma che isola i lavoratori non sindacalizzati.

«Qui non ci sarà più nessuno tra 10 anni» sogghigna un taxista che in miniera ci ha passato mezza vita. Ed effettivamente un giorno forse resteranno solo criminali e gente troppo malandata per emigrare. Così la città-gulag potrebbe concludere il suo ciclo vitale trasformandosi in qualcosa di simile alla New York di John Carpenter dove l’abisso s’incontra con la modernità.