Nel primo paragrafo della Chambre bleue, c’è una frase che, dal 1963 in poi, colpisce sempre il lettore; ed appare chiaro che George Simenon l’ha messa lì à dessein, con l’obbiettivo di scioccare. Eccola: «Non solo tutto era vero, ma tutto era reale: lui, la camera, Andrée che restava distesa sul letto devastato, nuda, a gambe aperte, con la macchia scura del suo sesso da cui affiorava un filo di sperma». L’occhio si ferma sulla parola sperma. Non che l’autore abbia mai avuto paura di essere diretto, ma questo tipo di linguaggio, nei suoi quattrocento romanzi, è veramente raro. Eppure la parola importante è un’altra. E, forse, anche il disegno è un altro: non tanto sconcertare il lettore, quanto distoglierne l’attenzione dal dettaglio fondamentale che, in ogni un buon giallo, deve essere al tempo stesso esposto e nascosto.

La parola chiave è affiorare, sourdre. Se l’autore avesse voluto accordarne il registro a quello della parola sperma avrebbe potuto utilizzare il più volgare suinter, Simenon sceglie invece sourdre, che, dal latino surgere, elevarsi, per solito, viene associato all’acqua che sgorga da una sorgente.

Il lettore perdonerà se, invece di parlare del film di Mathieu Amalric, che oggi, ieri per chi legge, veniva presentato a Un Certain Regard, ci dilunghiamo sul libro da cui è tratto. Georges Simenon è stato molto adattato, sia in Francia che all’estero. Soprattutto, è stata adattata la serie di inchieste del commissario Maigret. Meno i suoi romanzi e mai La Chambre bleue che, pure, secondo Mathieu Amalric che ne ha parlato con John Simenon, figlio di Georges, aveva interessato molti cineasti. Jacques Fieschi avrebbe scritto una sceneggiatura per Maurice Pialat; André Téchiné aveva in mente Catherine Deneuve nel ruolo di Andrée, Claude Chabrol pensava invece a Gerard Depardieu per il suo amante, Julien, con il quale poi ha girato Bellamy, il suo ultimo film, anch’esso ispirato da Simenon. Sembra che anche i fratelli Dardenne abbiano accarezzato l’idea. Il motivo per cui nessuno di questi progetti sia diventato un film è ignoto. Certo, la difficoltà dell’adattamento non riguarda l’intreccio del romanzo, due amanti accusati di aver assassinato i rispettivi coniugi, ma la trasposizione di quel verbo: sourdre, senza il quale la voce del romanzo si ammutolisce.

Che cos’è che deve affiorare? La materia ovviamente, vale a dire quello che Simenon chiama il reale. Ma l’intreccio dei corpi, la camera blu dell’hotel nel quale i due amanti si ritrovano, le strade del piccolo paese agricolo dove gli amanti hanno ognuno un lavoro e una famiglia non sono tutto il reale. Sono solo una superficie. Il vero reale è il loro desiderio, i loro pensieri profondi, in una parola: l’uomo. Julien amava veramente Andrée? Voleva passare con lei ogni momento della vita, al punto di uccidere? Oppure era solo una passione? È quello che cerca di capire, con pazienza e metodo, il giudice istruttore, durante i lunghi interrogatori che precedono il processo. Ma come trovare la verità, se nemmeno Julien è capace di dire con certezza quali fossero i propri pensieri in proposito?

Il tema che il film affronta, confrontandosi con il romanzo di Simenon, è nientemeno che quello della mente. Come interpretarne i segni esteriori? Un morso su un labbro, dato durante l’amore è diverso da un morso dato dopo l’amplesso? Entrambi producono lo stesso risultato: qualche perla di sangue affiora sulla pelle. Quale intenzione, queste gocce manifestano? Quella, innocente, del piacere, oppure quella, maliziosa, di lasciare un marchio?

Sulla carta, il film di Amalric può apparire un classico film d’autore. Invece si tratta di un cinema coraggioso perché diverso dall’ordinario. Oggi più che mai, il cinema francese di finzione è malato di sceneggiature scritte con metodo ma senz’anima. È un effetto collaterale del sistema produttivo, il quale riposa sulle commissioni del Centro nazionale della cinematografia. E del fatto che, nelle commissioni, la critica numero uno è sempre formulata sulla base del principio di coerenza. Il risultato è che i film sottomettono la psicologia dei personaggi alla logica della sceneggiatura. Ecco che ogni gesto, riflessione, azione dei protagonisti, più che riflettere la complessità irriducibile di un tipo umano risponde alle esigenze logiche del movimento della sceneggiatura. La Chambre bleue è un tentativo molto riuscito di ribaltare questo schema. Il film stesso mette in scena, attraverso la finzione dell’inchiesta giudiziaria, un processo di autoanalisi durante il quale tutti i segni che affiorano all’immagine vengono interrogati, non per risolvere l’intrigo ma al contrario per accumulare incertezze, indicare nuove piste, suggerire interpretazioni molteplici e rivelare così l’abisso che si apre quando si osa sporgersi a guardare dal bordo dello spirito umano.