I «sovranisti» di oggi dovrebbero pagare i diritti di copyright a Ibrahim Boubacar Keita (detto Ibk), agli sgoccioli del suo primo mandato presidenziale in Mali. Cinque anni fa aveva tappezzato le strade di Bamako e usato come intercalare fisso in campagna elettorale lo slogan le Mali d’abord (il Mali prima di tutto).

Se ha convinto i suoi concittadini lo scoprirà oggi al primo turno (il secondo, eventualmente, il 12 agosto) di un voto che, oltre a Ibk, vede altri 23 candidati contendersi il palazzo presidenziale posto sulla Koulouba (la collina) che sovrasta la capitale.

L’esito è tutt’altro che scontato. Del gruppo di pretendenti alla successione di Boubacar Keita, quattro i nomi che spiccano: Soumaila Cissé, nemico storico di Ibk, capofila dell’opposizione e grande sconfitto al secondo turno nel 2013; Moussa Mara, tra i primi ministri cambiati in cinque anni da Ibk; Moussa Sinko Coulibaly, 45enne generale dell’esercito, da cui si è dimesso per correre alle presidenziali, ben visto dalla Francia; Aliou Boubacar Diallo, ricco uomo d’affari, proprietario dell’unica miniera d’oro del paese a maggioranza maliana e principale finanziatore della campagna del 2013 di Ibk.

Le scorse consultazioni, le prime libere dopo un colpo di stato (2012) e la guerra contro ribelli e jihadisti del nord (2013), erano state vinte al secondo turno da Keita con il 77,62%. Ma ora che la «febbre elettorale» sta salendo, il 73enne leader si ritrova isolato, nonostante i 64 partiti della maggioranza.

A rendere la corsa elettorale incerta sono le frequenti manifestazioni della società civile vietate e violentemente represse; gli scioperi delle categorie professionali; le defezioni eccellenti all’interno della maggioranza; un paese che vede gran parte del territorio sfuggire al controllo del potere centrale.

Ibk, già sconfitto al voto del 2002 e del 2007, aveva definito le presidenziali del 2013 «la mia ultima battaglia». Una delle tante promesse non mantenute. Kouloubamètre.com, sito apolitico e indipendente, propone un barometro costantemente aggiornato sull’avanzamento del programma di governo.

Secondo le sue statistiche solo il 10% delle proposte di Ibk sono state mantenute, il 18% sono in corso, il 6% sono state infrante e il 66 % sono ancora in sospeso. Pesa, soprattutto, la mancata concretizzazione degli Accordi di pace firmati ad Algeri, nel 2015, coi gruppi ribelli tuareg che si erano battuti per l’indipendenza dell’Azawad. Eppure i sostenitori di Ibk continuano a chiamarlo kankeletigui, l’«uomo che mantiene la parola», in bambara.

Il paese, a cinque anni dalla guerra nel nord, è ancora impantanato nella peggiore crisi securitaria della sua storia. Gran parte del territorio del centro e del nord resta sotto il controllo di gruppi armati legati alla santa alleanza jihadista, Jama’at nusrat al islam wal muslimin.

La violenza, nel 2018, è scoppiata soprattutto nelle regioni centrali: il 29 giugno un gruppo di miliziani armati ha perfino attaccato il quartier generale della forza regionale del G5 Sahel (contingente multinazionale formato da eserciti di Mali, Burkina Faso, Niger, Mauritania e Ciad) a Sevaré. Almeno sei i morti. Il 22 luglio, in un’imboscata tesa da alcuni terroristi nella foresta di Soumouni, nella regione di Segou, sono rimasti uccisi 11 terroristi e un soldato dell’esercito.

Ma il conflitto non è solo con i jihadisti. Un recente rapporto dell’Onu sostiene che dall’inizio del 2018 sarebbero circa 300 i civili uccisi in un centinaio di episodi di violenza tra gruppi comunitari rivali. Oltre il 75% degli scontri documentati è avvenuto nella regione centrale di Mopti. E oltre la metà dopo il 1° maggio: un’escalation di attacchi dei dozo (cacciatori) ed elementi dogon contro i villaggi occupati principalmente da fulani (allevatori).

L’esercito è accusato di aver giocato sulla rivalità tra le comunità per combattere la guerra al terrorismo. In realtà, ha perso su tutti i fronti.

La missione di stabilizzazione dell’Onu in Mali (Minusma), dispiegata nel 2014, impiegherà oltre 7mila caschi blu per garantire la sicurezza del voto. Anche i militari francesi – presenti dal gennaio 2013 con l’operazione Serval, trasformatasi poi in Barkhane – vigileranno sulla correttezza del voto. In totale saranno 30mila i maliani addetti alla sicurezza elettorale.

Ma tale sforzo potrebbe non bastare a contenere l’astensionismo. Una diserzione dalle urne inevitabile in un paese che vive una pesante insicurezza. Anche alimentare.

Secondo l’Onu, a causa della violenza 4,3 milioni di maliani dovranno fronteggiare gravi mancanze di cibo tra giugno e ottobre 2018, e almeno un milione avrà bisogno di assistenza alimentare di emergenza. Un paese in ginocchio che neppure la fanfara elettoralistica riesce a risollevare.