Salzgitter, città-testimone, specchio di mezzo secolo di Storia tedesca fra i fumi e le colate del complesso siderurgico della Bassa Sassonia che l’ha generata durante il regime nazista. Fra le rovine industriali e la costante monotonia di villette a schiera, un uomo e il suo cane corrono attraverso le articolazioni del tempo, disegnando una mappa storico-sentimentale e punteggiando le immagini di Schicht, opera prima di Alex Gerbaulet in Concorso Internazionale a Filmmaker, opera vincitrice del Prix Premier allo scorso FID Marseille. Impastando immagini di repertorio e vissuto familiare, una voce-off, memore della lezione atonale e senza tempo della narrazione di Notte e nebbia di Alain Resnais, cadenza con precisione da metronomo gli avvenimenti che hanno scandito la vita della famiglia Gerbaulet: la lunga malattia della madre, il lavoro del padre nell’acciaieria, la fuga della regista da quei luoghi, cercando, come in alcuni lavori di Alexander Kluge e Angelika Levi, un approccio di osservazione al tempo presente insieme alla ricerca di un passato che nelle tragedie del privato individua la matrice della Storia.

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Vorrei cominciare proprio dal titolo, Schicht, una parola secca, che indica il turno di lavoro, ma ricca di valenze foniche…

In tedesco quella parola ha molti altri significati oltre a «turno». Quando qualcosa deve concludersi, c’è una particolare espressione che contiene «schicht». Mi piaceva l’idea che una parola potesse trasportare così tante emozioni e accezioni e nel mio film gioco molto con le parole, spesso per ragioni ritmiche ma uso anche dei termini come quello del titolo che possono nascondere altri significati, vocaboli stratificati.
A proposito di stratificazioni, hai scelto come immagine del poster un fotogramma del video della cantante Alexandra, un leit-motif non solo musicale ma anche di memoria, quasi una figura-simbolo che racchiude l’essenza femminile della tua famiglia…

La scelta di quell’immagine ha una doppia importanza. Il suo nome d’arte era Alexandra mentre quello di battesimo era Doris, come il nome di mia madre e questa figura è cruciale anche perché l’ho vissuta come una sorta di alter ego: era una donna che proveniva da una zona della Germania confinante con la Russia e diventata un simbolo per quella gente come ad esempio per la famiglia di mio padre che proveniva da quelle zone, un tempo tedesche, ora polacche.

L’interesse nell’indagare luoghi apparentemente privi di significato, ma in realtà portatori anch’essi di memoria storica, non è una novità nel tuo percorso prima di videoartista e ora di filmmaker…

Per molto tempo non mi sono interessata dei luoghi della mia infanzia. Poi, quando ho cominciato a fare videoarte, ho iniziato a studiare degli avvenimenti, in villaggi o piccole città, che avevano a che fare con il recente passato della Germania: luoghi dove sono avvenuti crimini di guerra, piccole città dove criminali nazisti si erano rifugiati. Sono stata in questi posti chiedendomi come queste figure potessero vivere insieme agli altri e sul perché nessuno si scandalizzasse.

Quando e come è avvenuto il passaggio dalla videoarte a questo tuo primo cortometraggio?

Ho sempre pensato che il mio desiderio di filmare fosse in realtà una scusa per compiere le ricerche che mi interessavano, che fosse un motore per scoprire la Storia e per questo film ho deciso di usare per la prima volta la narrazione, focalizzarmi su di essa e sul montaggio. Ho scritto il soggetto e ho compreso che mi interessava sempre di più la drammaturgia. Il lavoro dell’artista è solitario mentre io amo lavorare in team, avere uno scambio e anche per questo mi piace pensarmi una filmmaker ora.

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Come hai organizzato un lavoro così composito? Sei partita dai materiali di repertorio o dalle immagini girate nella Salzgitter di oggi?

La mia idea iniziale era che ogni persona nel film fosse «rappresentata» solo dai materiali d’archivio, e mai nella loro fisicità. Non volevo inizialmente filmare mio padre poi ho pensato a cosa potesse meglio delineare i membri della mia famiglia e ho cominciato a pensare a dei movimenti filmici che li descrivessero. In un secondo momento ho aggiunto le fotografie, mie e di mia madre, combinando il tutto con il materiale pre-esistente, un lavoro lungo durato 4 anni e che spero non si ripeta per il mio prossimo film.

Puoi raccontarci qualcosa del nuovo progetto?

La prossima primavera comincerò le riprese di un film che parla di donne che hanno ucciso il proprio marito. Ho sempre voluto occuparmi di violenza domestica perché la violenza femminile è qualcosa di molto complesso. Ho letto una storia molto paradigmatica su un giornale, ho preso contatto con l’avvocato di questa donna e ho cominciato a fare delle ricerche. Ho pensato di abbandonare il progetto quando lei si è uccisa in carcere, ma l’avvocato mi ha incoraggiata perché uno dei drammi della sua vita è stato il non potersi esprimere, il non avere una voce nella nostra società. Era russa e venne in Germania nei primi ’90, già con una storia personale drammatica. Non ha mai imparato il tedesco e questo l’ha resa una persona invisibile, non riconosciuta e per questo ho deciso di continuare ugualmente, per restituirle quella voce dimenticata dalla Storia.