Quando Philip Roth motivò il proprio addio alla scrittura con l’estenuazione che gli era costata la stesura dei suo romanzi, e antepose la fatica alla sua evidente passione, persino accampando una serie di irriproducibili frustrazioni causate dai vanificati sforzi consumati sulle versioni poi abbandonate, fu con incredulo stupore che si valutò, finalmente, lo iato tra la felicità degli esiti cui ci aveva abituato la sua straordinaria vocazione narrativa e il sudore della fronte che quella vocazione aveva implicato. Ma adesso che nel primo dei Meridiani dedicato allo scrittore americano (Philip Roth, Romanzi 1959-1986 , a cura di Elèna Mortara, autrice anche del saggio introduttivo, e con alcune notizie ai testi di Paolo Simonetti, Mondadori, pp. CXXVIII-1888, euro 80,00) viene ricostruita la genesi delle opere e troviamo riprodotte parti delle dichiarazioni via via rilasciate dallo stesso Roth, insieme a righe cruciali tratte delle introduzioni destinate alle edizioni a tiratura limitata, questo immane e preziosissimo lavoro di allestimento della cornice in cui si iscrive ogni romanzo evidenzia, fino a renderla tangibile, la lotta a volte stremante dello scrittore per trasformare in materiale narrativo i dati di realtà, alterando fino a stravolgerle tutte le occasioni di incontro, di scontro, di malattia, di innamoramento e di relativa disillusione che la vita gli ha messo davanti.

Il plauso di Saul Bellow
«Credetemi – scrisse in occasione del discorso di accettazione del National Book Critics Circle Award che vinse per La controvita nel 1987 – L’immaginazione, questo macellaio, non perde tempo con gentilezze: bastona i fatti sulla testa, con gesto repentino taglia loro la gola e poi li eviscera a mani nude (…) credetemi, quando l’immaginazione ha finito con un fatto, questo non somiglia più a un fatto».
Già il primo degli otto romanzi raccolti in questo Meridiano (cui ne seguiranno altri due), scritto fra i venticinque e i ventisei anni e titolato Goodbye, Columbus evidenzia un qualche travaglio: «… sento un coltellino al mio fianco mentre mi affretto a essere un ragazzo prodigio» scrisse Roth al suo editor George Starbuck, che avrebbe preferito un cambiamento nel finale e non lo ottenne.

Tenendo a bada la sconcezza della propria verve erotica, sebbene già ne lasciasse presagire il potenziale, Roth raccontò la storia un amore tardoadolescenziale tra Brenda, la figlia di una famiglia ebrea il cui agio è derivato dai proventi di una fabbrica di lavandini, e il bibliotecario Neil Klugman, residente presso la zia, un idealtipo già modellato su quella ristrettezza mentale propria della piccolissima borghesia ebrea di Newark che l’esordiente scrittore conosceva bene perché costituiva il contesto dei suoi primi diciotto anni di vita.

Saul Bellow – importantissimo punto di riferimento per Roth che gli avrebbe riconosciuto, tra l’altro, il merito di trattare le esperienze derivate dal suo contesto ebraico «da romanzieri, piuttosto che da addetti alle relazioni pubbliche» – salutò l’uscita di Goodbye, Columbus complimentadosi perché «Mr Roth è comparso con unghie e capelli e denti, sapendo già parlare coerentemente». Non dello stesso avviso erano i molti ebrei indignati dal preteso antisemitismo rivelato dai racconti che accompagnarono il volume: particolarmente diffamante risultò la storia di alcune reclute ebree che, durante la guerra, avrebbero brigato per ottenere favori e esenzioni speciali presso il loro sergente, un correligionario di nome Nathan Marx, sensibile alle richieste dei giovani soldati. Il racconto, titolato «Difensore della fede», scatenò la Lega Antidiffamazione della B’nai B’rith, che scese in campo chiedendo spiegazioni, e due anni più tardi la Yeshiva University di New York organizzò una tavola rotonda nella quale l’odio maturato contro l’autore americano andò a precipitare in questa brillantissima domanda: «Mister Roth, avrebbe scritto gli stessi racconti se fosse vissuto nella Germania nazista?» Quasi vent’anni dopo, quello stesso interrogativo venne catapultato tale e quale nelle pagine dello Scrittore fantasma: l’imputato si chiamava Nathan Zuckerman e debuttava, allora, nelle vesti di alter ego elettivo di Philip Roth.

Sulla via del successo
Le energie spese sul fronte pubblico nel difendersi contro le accuse di vilipendio alla identità ebraica e quelle consumate contemporaneamente sul fronte privato per accelerare la disgregazione del suo primo matrimonio, avrebbero trovato un faticoso riscatto, dieci anni dopo l’esordio di Roth, nel Lamento di Portnoy, il romanzo che sembrò convertire tutte le frustrazioni accumulate in una esplosione di scintille immaginative, rese più brillanti dalle venature di un sarcasmo ormai senza più il freno di giovanili pudori. Il romanzo, anch’esso un parto niente affatto indolore, fu messo insieme da quattro progetti abbandonati, il quarto dei quali – uscito nel 1968 sulla «New American Review» – aveva per titolo Civilization and Its Discontents, come suona in inglese la celebre opera di Freud datata 1929.
Nella prima stesura – ci avverte Elèna Mortara in una delle sue note capillarmente informate – Roth aveva previsto il comico monologo di un conferenziere che illustra con diapositive e aneddoti i genitali di personaggi famosi, mentre la versione che conosciamo mette in scena l’ebreo erotomane e ipocondriaco Alex Portnoy, impegnato a raccontare in un incontenibile flusso di «blocchi coscienza» gli scacchi della sua miserevole vita, passata a inseguire ragazze gentili sulle quali riversa, senza mai appagarle, smodate esigenze sessuali. «Dottore – gli fece dire Philip Roth – forse gli altri pazienti sognano le cose… a me succedono. Ho una vita senza contenuti latenti».

Sul fronte pubblico, la fase finale della scrittura del Lamento si intrecciò con l’assassinio di Martin Luther King e con quello di Robert Kennedy, mentre sul fronte privato la morte della prima moglie Maggie, dalla quale Roth era da tempo separato, venne salutata con un sollievo direttamente proporzionale alle incredibili ritorsioni e bugie che lo scrittore raccontò di avere subito durante e dopo gli anni del matrimonio. Il pubblico parve apprezzare l’inverecondo Lamento, tanto che in edizione paparback il romanzo vendette tre milioni e mezzo di copie, mentre la critica alternò scontate scomuniche – la più autorevole delle quali a firma di Gershom Scholem – a entusiastici encomi: il più significativo venne da Harold Bloom, che dedicò alle interpretazioni di Portnoy’s scritte a partire dagli anni settanta un intero volume, affermando che il libro «a distanza di una generazione dalla sua prima uscita sopporta superbamente una rilettura».

Idee abortite, carcasse di stesure abbandonate e tentativi di elaborazioni romanzesche dei propri travagli reali si incrociavano a distanza di anni sulla scrivania di Roth, che dichiarò – per esempio – di avere lavorato a La mia vita di uomo, il terzo romanzo incluso in questo Meridiano e uscito nella primavera del 1974, già a partire da dieci anni prima, in conseguenza del suo fallimentare matrimonio con quella Margaret che nella finzione dell’intreccio assume il ruolo di moglie del protagonista, Peter Tarnopol. Il giovane narratore ebreo, che funziona qui da primo alter ego di Roth, si ritrova prematuramente sottratto alla propria vocazione precisamente a causa del suo disgraziato matrimonio con una donna che con gelosie, scenate, e incredibili raggiri gli renderà la vita insopportabile, ossessionandolo fino a insidiarne le fantasie più remote, anche dopo l’incidente stradale che spazzerà via la donna, se non altro, dal mondo dei vivi. «Allora era vero? – così Tarnopol accoglie la notizia al telefono – Morta? Morta sul serio? Morta nel senso che non esisteva più? Morta come sono morti i morti? Morta come nella morte? Morta come un morto che non parla? Maureen è morta? Deceduta? Estinta? Chiamata all’eterno riposo, quella miserabile troia?»

Entra in scena Nathan
Fu lo stesso Roth a rivelare, quattordici anni dopo l’uscita del romanzo, la coincidenza tra le proprie disgrazie e quelle di Tarnopol: «Probabilmente nient’altro nella mia narrativa riproduce con maggiore esattezza un fatto autobiografico» – scrisse in quel preteso autoritratto eloquentemente titolato I fatti.
È tra le pagine della Mia vita di uomo, elaborate durante quella che Roth chiamò «la mia writinig clinic», che fa la sua prima comparsa Nathan Zuckerman, ora solo un personaggio secondario al servizio delle fantasie narrative di Tarnopol, ma cinque anni dopo già salito al rango protagonista nello Scrittore fantasma.
Qui, il più famoso degli alter ego di Roth è un giovane focoso esploratore di mete sessuali e al tempo stesso l’ardente letterato neofita che va a omaggiare il suo scrittore preferito, E. I. Lonoff (probabile maschera di Bernard Malamud) nella speranza di ricevere quella «convalida patriarcale» che il padre non è in grado di dargli: non è in grado non solo in quanto modesto podologo, ma anche perché vittima vilipesa dall’esordio romanzesco del figlio, in cui si legge una poco nobile storia di famiglia, capace di compromettere, a giudizio del pover’uomo, il loro buon nome e quello di tutti gli ebrei.
Quando Zuckerman verrà licenziato, dopo un trentennio di onorati servizi distribuiti lungo una decina di romanzi, l’ultimo dei quali giust’appunto titolato Il fantasma esce di scena, egli sarà ormai un attempato, famoso scrittore, che i postumi di una operazione per un cancro alla prostata hanno reso incontinente e, quel che è peggio, ridotto all’impotenza. Da un pezzo avrà finito di recitare «il dramma della scoperta di se stesso», ma ciò nonostante finirà con il precipitarsi nella direzione contraria a quella che la prudenza gli indica.

Del suo lungo e faticoso passato di alter ego, la performance più elaborata è quella che si trova tra le pagine di un romanzo del 1986, La controvita, nel quale Zuckerman compare alternatamente come voce narrante e come oggetto del racconto di altri, ciò che ne fa una creatura esemplarmente artificiosa nonché consapevole del fatto che possiamo affidarci a esercizi di interpretazione, ma mai contare sulla verità, perché essa non esiste. «Essere Zuckerman è una lunga recita – si lamenta – esattamente l’opposto di ciò che si intende con l’espressione essere se stessi».
Alla fine del 1986, terminato questo romanzo (che chiude il primo volume dei Meridiani), tra tutti il più sperimentale e strutturalmente il più complesso, Roth si proclamò «letteralmente devastato».

Problemi di intreccio
In ognuna delle tappe della trilogia di Zuckerman, del resto, lo scrittore americano rivelò di essersi trovato a «affrontare una crisi diversa», e in occasione della scrittura di Zuckerman scatenato (sul titolo del quale vale la pena leggere per intero la nota di Paolo Simonetti) essendo il problema derivato «dalla mia incapacità di capire che il padre di Zuckerman doveva essere già morto all’inizio…. sono rimasto a fissare stupidamente il manoscritto per mesi, senza vedere nulla». Per quanto incredibile possa apparire questa confessione a fronte della esuberante felicità espressiva dell’autore, essa esemplifica un travaglio che non si sarebbe attenuato nel tempo, se è vero che l’ultimo dei romanzi di Roth, Nemesi, gli costò ben tredici stesure, mentre nel cestino crescevano i cumuli di carta appallottolata e le giornate migliori non gli concedevano più di una o due pagine soddisfacenti.
Stupefatta, l’autrice dell’unica biografia autorizzata dello scrittore americano, Claudia Roth Pierpoint, gli chiese cosa sostituisse all’alcol quale combustibile per sostenere la fatica. E la risposta fu, «la disperazione».