A chi non piacciono le storie criminali? Un gruppo di cineasti svizzeri ha deciso di selezionarne alcune tra quelle che riempiono le pagine di cronaca per giorni e per mesi e di prolungarne la vita in una serie di film di finzione. La serie, che per il momento conta quattro film, prende il nome d’Onde d’urto (Ondes de Choc). L’idea è piaciuta alla Berlinale che ne ha voluti due nel Panorama special : Prénom, Mathieu di Lionel Bauer e Journal de ma tête di Ursula Meier.

Mathieu è un ragazzo di 17 anni. Una sera rientrando a casa dopo che la ragazza gli ha dato buca accetta un passaggio in macchina. Errore : il gentile automobilista è un mostro che prima lo stupra, poi tenta di dargli fuoco. Miracolosamente, Mathieu si salva. Comincia allora la caccia all’uomo che procede però a rilento, appesa ai ricordi di Mathieu che riemergono al contagocce.
La cosa migliore del film è senza dubbio il personaggio dell’ispettore, interpretato da Michel Vuillermoz (della comédie française) noto al grande schermo soprattutto per ruoli comici e che qui è chiamato a incarnare un detective la cui umanità è forse più apparenza che sostanza.

L’intenzione palese di Bayer, come del resto di Meier, è quella di fare di queste storie una cartina tornasole della provincia. Nei punti migliori entrambi i film fanno un passo in più, mostrando che il lato oscuro dei villaggi ordinati e puliti della Svizzera francofona non è una degradazione del lato apparente: entrambi sono puramente e semplicemente la stessa cosa.
In questo senso, Journal de ma tête è più potente e più ambiguo. Racconta la storia di un ragazzo che dopo molto cogitare intorno alla nullità della vita del padre e della madre decide un bel giorno di farli fuori. LA STORIA

Evoca immediatamente il caso, tanto caro a Foucault, e portato al cinema da Réné Allio, di Moi, Pierre Rivière. E infatti tutto gira intorno alla confessione scritta. Come Pierre Rivière anche l’eroe di Ursula Meier sublima il suo delitto in una forma letteraria. Di questi suoi scritti nessuno sa bene cosa farne, tanto meno la sua insegnante di letteratura che da un giorno all’altro si ritrova nel ruolo ben poco confortevole di cattivo maestro.
Anche nel secondo film, la scena è tenuta dal personaggio secondario. E di nuovo si tratta di un attore noto. Ma la scelta di Fanny Ardant è tutto fuorché neutra. Da un lato perché la sua interpretazione fagocita, nel bene e nel male, tutto il film.

Fare un film con Fanny Ardant, si sa, è come mettere un capo rosso in un lavaggio di bianchi a 90 gradi. In questo caso il bucato è riuscito per un motivo, perché la Ardant non porta in dote solo la sua perenne aria da posseduta depressiva. Con lei, il film ritrova l’ambiente grenoblese che fu di La signora della porta accanto: ambiente che Serge Daney definiva «la borghesia disperatamente media» (Ciné Journal, Parigi 1986). Alla tragedia di appartenere a una classe mediocre, Journal de ma tête aggiunge una cattiveria in più : i protagonisti hanno letto molti romanzi eppure neanche la letteratura riesce a elevare le loro perversioni al di là di qualche cliché.