Maria Pia Quintavalla torna nelle librerie con la raccolta Quinta Vez (Stampa 2009, pp. 93, euro 13) e ciò che colpisce è proprio questo continuo cambiamento stilistico-formale che va, come dice Maurizio Cucchi in prefazione, dalla prosa poetica al dialogo teatrale riflettendo il ritmo sempre vario e sincopato che l’autrice imprime ai contenuti. Nella prima parte incontriamo l’ aerea visione memoriale dell’ombra materna che s’aggira convocata in una dimensione vicina, seppure non del tutto, a quella terrena: «Quante altre volte e per quanto tempo, saresti rimasta in visita da me, o saresti mai tornata, non era dato sapere; dunque intendevo farti dei cenni e lasciare che le due anime conversassero subito liberamente».

I quadri che ne escono hanno tinte purgatoriali, la luce non è mai proprio luce e l’ombra egualmente non è mai tale, tanto che le scorie terrestri sembrano appesantire le due figure sempre sul punto di ricongiungersi, attraverso lo sfioramento di una mano o lo sguardo onnicomprensivo di un occhio. In questo strano spazio però la zavorra del mondo con le sue miserie, avidità, pusillanimità, è barriera a un loro pensare nuovo e libero: «Per prima apparizione, la tegola del mondo ci apparve dura e sinistra piombare contro di noi, ci riparammo» ma in queste sperdute stanze forse della mente, dove ondeggiano, sembrano voler riconquistarsi e riconquistare anche solo per un attimo l’intima felicità, l’intimo abbraccio mai avuto forse, neanche nel tempo di prima. Assistiamo a una danza subliminale senza requie, dove la visione materna talvolta si fa fumo, profumo e poi torna visione quasi la poeta voglia lasciare nelle parole e negli occhi del lettore la più effimera della sensazioni.

LA SECONDA SCENA è invece quella della figlia che diviene madre, una circolarità di tinte speranzose, piena di accensione e commossa comprensione: «Ora che scappa e ride con le amiche/ piano poi copia parole da poeta,/ dicono non ti somigli, e invece/ piano, lei scrive in versi la sua notte,/ si trucca gli occhi, ride. Si seduce». Tra le pieghe è sempre il ritmo, un valzer degli addii e dei piccoli ritorni come nella parte dedicata a China – eroina rivoluzionaria che volteggia nella vasta biografia di Quintavalla già da anni, forse suo eteronimo come ne abbiamo avuti nella tradizione letteraria novecentesca e sembra – come l’autrice stessa dice in abbrivio di capitolo – risorgere in terra di Castiglia e amare e gioire picarescamente, succhiare randagia la vita profonda delle storie e cronistorie dei cavalieri erranti: «non fu mai dato di sapere, ma servì a capire/ che China era prodigio di canzone/ meravigliosa creatura in luogo chiaro,/ corso di virtù serena».

L’ULTIMO DIALOGO in forma teatrale è tra due sorelle che si rincontrano su una panchina dall’aria un pò beckettiana, in una notte non precisata e anch’essa forse purgatoriale, poiché illuminata dai soli lampioni di un parco. La scansione temporale delle tre scene, tratteggia con concise e crude pennellate, l’affresco di una delle tante famiglie borghesi degli anni del boom economico dello scorso secolo, e in verità a parlarsi e scontrarsi non sono solo due sorelle bensì modi d’intendere la vita: il conformismo da ai modelli patriarcali e familisti e della sottomissione della donna e dall’altra parte la completa rivoluzione intellettuale e di spirito e materiale. Ecco l’affermazione di P.: «Il Vietnam, il Cile, la Grecia, sembrava il tempo dello scontro fra il bene e il male, e prima ancora, il primo uomo sulla luna, il femminismo che nasceva oltre la sinistra: sciabolate nel cervello; nella mia mente gli trovavo albergo». Attenzione però, dietro questi modelli Maria Pia Quintavalla sembra riscrivere in controluce, parallela un’altra storia, quella della spiritualità sfuggente delle due donne, che sotterrata per decenni vorrebbe riemergere proprio lì, su una panchina e riprendersi l’autenticità di un tempo finalmente pulito dalle sovrastrutture di una vita. Nonostante la separazione, si ha la sensazione che in quel parco forse qualcosa tra le due si sia ritrovato, come a richiamare quella stanza d’inizio libro non ben definita tra luce e ombra dove madre e figlia, per un attimo, si son guardate limpidamente senza parole e capite come non mai.