La scatola in legno è piccola, passa quasi inosseravata se non fosse che si staglia solitario in una teca trasparente, passando dalla trascuratezza al centro nevralgico dei padiglioni. È il perno immaginifico intorno al quale gira tutta la mostra: un reperto prezioso, risalente al tempo degli Egizi. Sul lato del sarcofago, è disegnato un animale non così ovvio, un toporagno. Dentro, è annunciata una mummia che invece non c’è: quella millenaria tomba lillipuziana è vuota. Ma grazie al potere illusionista della suggestione, nessuno va alla ricerca del corpo perduto e finisce per assodare la presenza di un fantasma. Magie del cinema e, in fondo, anche dell’arte.
Un oggetto così – oscurato dalle grandi collezioni museali eppure dall’indiscusso magnetismo – non poteva lasciare indifferente una coppia come quella formata dal regista Wes Anderson e sua moglie, l’artista e designer Juman Malouf. Li ha attirati come una calamita («la nostra speranza è di fare luce su quegli angoli rimasti finora troppo in ombra per poter essere osservati»), convincendoli a trasformarlo nel protagonista principale della mostra Il sarcofago di Spitzmaus e altri tesori (Fondazione Prada, fino al 13 gennaio 2020). Il piccolo sepolcro viene attivato come fosse una macchina d’azione, un dispositivo scenico: è stretto fra un gatto infuriato, col pelo dritto, pronto a saltargli addosso e un topo in fuga dall’altra parte, che evidentemente ha trovato una via d’uscita.

Wes Anderson e Juman Malouf (foto Getty Image)

MONTAGGI ESTATICI
Il progetto espositivo concepito da Anderson e Malouf giunge alla Fondazione Prada di Milano (dove il filmmaker ha ideato anche il bar) dopo una prima tappa viennese, costituendo una sorta di secondo capitolo arricchito di opere e in omaggio – nell’allestimento pensato in collaborazione con Margula Architects – ai giardini rinascimentali. Il percorso acquista spazi più ariosi per la serie di wunderkammer: piccole cappelle della meraviglia che si inanellano una dopo l’altra, con elementi strutturali che mimano l’ingombro delle siepi per una separazione e rendono possibile uno sguardo di intimità. La «pianta» è ispirata al Castello di Ambras di Innsbruck, residenza disegnata da Guarienti sul modello delle corti italiane, destinata a ospitare le raccolte di Ferdinando II d’Asburgo e della consorte Philippine Welser.
Anderson e Malouf hanno pescato fra milioni di oggetti delle collezioni del Kunsthistorisches Museum di Vienna, setacciando l’eredità asburgica seguendo il proprio istinto – tendenzialmente, un montaggio estatico – infischiandosene allegramente della cronologia, delle letture accademiche e della giusta proporzione tra capolavori d’arte e manufatti di artigianato etnico, diamanti e meteoriti, eccezionali scoperte archeologiche (il bracciale in faience egizia) e centenarie uova di emù, dipinti di famiglie reali e più umili strumenti di misurazione del tempo. Come detective in cerca di indizi vegetali e bestiari improbabili, hanno poi rovistato in mezzo a scaffali e depositi di undici dipartimenti del Museo di storia naturale. Il risultato di questa originale caccia è un’impaginazione inedita di opere e memorabilia che riunisce insieme ben 537 «pezzi».

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PER VIA DI SOMIGLIANZA
Una sceneggiatura nuova per un museo in cui la narrazione stavolta è affidata a mappe cromatiche, somiglianze di forme, escrescenze botaniche, miniature del paradiso terrestre e ritratti di famiglie irsute. E a testimonianza della virtuale consonanza con Vienna, nel museo della città austriaca le «assenze» dei reperti dati in prestito sono state riempite dai disegni-ritratti di Juman Malouf.
È stato Jasper Sharp (che co-cura la mostra milanese de Il sarcofago di Spitzmaus e altri tesori, insieme a Mario Mainetti) ad avere l’idea di far deflagrare una istituzione come il Kunsthistorische (rappresentata da anni nello stesso modo), chiedendo aiuto alla spregiudicatezza degli autori contemporanei sulla scia del programma The Artist’s Eye che aveva preso piede a Londra negli anni Settanta. Il primo a scompaginare i criteri museografici viennesi è stato Ed Rusha che ha scelto la cifra autobiografica e una settantina di opere. Anderson e Malouf hanno però osato di più, ingrandendo la scala dell’intervento con collegamenti che a loro sembravano «lampanti» e sollevando un seducente interrogativo: è ancora possibile una classificazione della realtà, attraverso una cartografia dell’esistente che segue le imperscrutabili ragioni (e gli effimeri umori) del formarsi di collezioni così eterogenee?

PENSANDO A WARBURG
L’approccio Anderson e Malouf richiama alla mente quell’atlante figurativo di Aby Warburg – Mnemosyne – in cui in ogni immagine si condensa un’evocazione. Nessuna pretesa di narrazione «cosmica», semplicemente la riattivazione di flussi di energie per catturare l’attenzione su alcuni nuclei «visionari», optando per molteplici percorsi affabulatori.
I processi alchemici del regista americano (I Tenenbaum, Moonrise Kingdom e Grand Hotel Budapest) al momento si diffondono anche fuori dai musei: il cineasta è infatti impegnato nella post produzione di The French Dispatch (uscirà nel 2020), atto d’amore verso i reporter e le storie che raccolgono. Un film ambientato in un avamposto di una rivista statunitense in una città francese immaginaria del XX secolo. Quindi Anderson ama i giornalisti, ma preferisce non incontrarli. Nemmeno dentro i cabinet de curiosité che allestisce.