Con toni nuovi e sorprendenti per la loro freschezza e vitalità, Nino De Vita ci riporta – nella sua nuova raccolta di poesie dal titolo Sulità (solitudini) edita da Mesogea (pp.168, euro 14,00) al tema fondativo della sua ricerca, che appartiene a tanta grande letteratura siciliana: il variegato teatro della vita che parla della cronaca minima ma essenziale per chi voglia provare a intendere il cuore dell’esistenza.

In Sulità è presente l’uomo dalle varie affettazioni psicologiche, dalle tante debolezze e disperazioni, l’uomo dalle menomazioni fisiche; e a segnare queste figure così diverse sta la solitudine, questa macchia, che la società odierna della proiezione digitale vorrebbe forse rimuovere, questo fantasma trasparente che sembra nel libro prendere possesso dei corpi di ognuno, nessuno escluso. Ecco allora che De Vita non ci restituisce solo un ritratto dell’uomo ma di più: quel momento nella vita di ognuno in cui si è privi davvero di ogni appiglio, anche il più futile, un appiglio al quale forse ci si vorrebbe aggrappare puri di rimanere ancorati a qualcosa. I personaggi in Sulità, sono come spogli davanti al lettore, nudi a se stessi: «E tu, come sei fatto?/ Gli occhi come ce l’hai? /». «Azzurri» io dissi/. «Azzurri…» fece Alberto. «Non ricordo /occhi di questo colore…». «Sono gli occhi del padre/ di mio padre» dissi/. «Azzurri come il mare…/ Come il colore del/ cielo…». E paiono poi di colpo materializzarsi su una Sicilia in ombra, fuori dai grandi traffici commerciali, e restituire forse il senso più profondo fondo della sicilianità, questo destino implacabile cui ognuno consapevolmente o meno è sottoposto.

De Vita fa trasparire tutto questo attraverso pagine fitte di dialoghi tra un io narrante e certe figure che man mano sfilano: lacerate, allontanate da qualcosa, addolorate, così battute che le loro parole trattengono una sapienza e una sensorialità potenziata dalla loro consapevolezza di trovarsi in bilico sull’esistenza. E certo, alcuni uomini e donne, esemplari, in poche battute ricostruiscono non solo il loro antefatto storico ma anche quello di una intera comunità. Il realismo di De Vita, la crudezza di certi suoi personaggi, certa violenza psicologica si distende, e questo è singolare, su quel risvolto d’amore e umanità che c’è in altri, come a farci intendere che in questo teatro il male poi non è sempre solo male e può avere risvolti inaspettati di stupore: «…//Pure le ossa della faccia/ erano storte,/ uscivano stentate le/parole./ Si muoveva nella sedia e sembrava dovesse/ cadere/… «Sai qual è la cosa che più/ desidero?»…/ «È una cosa/ che tu ogni giorno fai,/ che fai quand’è che vieni/ a trovarmi…/». «Camminare» io pronunciai…/ Oronzo sospirò./ Abbandonò la testa,/ respirando, piano abbassò le palpebre».

Ecco allora che in Sulità un uomo si aggira non solo nello spazio di un territorio, le saline di Cutusio ma anche in quello del tempo, riportando in superficie frammenti di dialoghi che non potremmo che definire poetici, nella loro essenzialità: «E invece tu, Ninuzzo,/ perché ci vieni a mare?»./ «Per questo silenzio vengo/. E pure per guardare/…», dove la natura sembra anch’essa parlare con l’uomo, perchè luogo di trasmissione sapienziale.
De Vita è uno degli eredi più alti dei grandi scrittori siciliani del secolo scorso e non solo in lui lo spirito dei Butitta, dei Bufalino, del suo amico Sciascia respira e si fa sentire; per De Vita tutto è allusione più che metafora, tutto può davvero mescolarsi, il torbido col sublime tanto che nei versi, Michelino, Oronzo, Giacomino, Pino Ciulla, Cola, parlano forse dicendo ciò che non pensano o forse dicendolo a metà, lasciando così il lettore straniato ma anche consapevole della fuggevolezza di quella cosa che vorremmo afferrare e chiamare verità.