«Se i partiti non rappresentano più gli elettori, cambiamoli questi benedetti elettori», scriveva nel 1992 Corrado Guzzanti, nel Libro de Kipli.

Nell’anno di uscita di quel libro, veniva dichiarato lo scioglimento dell’Unione Sovietica, Deng Xiaoping apriva la Cina al mercato, Clinton diventava presidente degli Usa, scoppiava la guerra in Bosnia.

In Italia usciva la sentenza del Maxiprocesso contro la Mafia (e la politica connivente) istruito da Falcone e Borsellino, che salteranno in aria nell’estate dello stesso anno, mentre Di Pietro convinceva Mario Chiesa a scoperchiare la pentola di Mani Pulite.

Ad aprile l’Italia tornava alle urne e la Dc perdeva due milioni di voti, il Psi teneva ancora perché Bettino Craxi sarebbe stato raggiunto dal primo avviso di garanzia solo a dicembre, mentre il Pds di Occhetto crollava al 16% e sorgeva la Lega di Umberto Bossi. La storia recente del populismo italiano comincia lì.

SE GRAMSCI AFFIDAVA al partito la «riforma intellettuale e morale» che l’Italia ancora aspetta, il principale partito della sinistra, dal 1992, accelera verso la leggerezza. Prova a imitare il Cavalcanti di Calvino che con la forza del pensiero scavalca con un balzo chi lo deride. Ma il partito leggero quando perde la sua vocazione periferica, diffusa, carnosa e sofferta, prova a vincere cambiando i suoi elettori. Si rivolge al centro e all’alto, quando guarda al basso e al «fuori» lo fa con spirito caritativo, non con passione.

E così quel basso e quel «fuori» che nel frattempo si allargano conquistando, al centro, precari, lavoratori globalizzati poveri e pensionati al minimo, e fuori le sponde del Mediterraneo a Est e a Sud, quando qualcuno da quel momento in poi ha provato a chiamarlo gramscianamente «popolo», non si è più voltato. Si indigna, aderisce, si mobilita con altre motivazioni, appelli, per bisogni, generi, alti e bassi istinti. Ma «popolo», no: non ci si sente più.

«Popolo? Chi?» è il primo tentativo di un gruppo di donne e uomini, giovani e non, che nella ricerca, nella comunicazione, nella politica istituita e agita, prova ad aprire un cantiere per costruire una porta d’uscita dall’ultraventennale paradosso tragicomico di Kipli e a darsi strumenti e parole per capire cosa succede, cercando di produrre meno autocoscienza e più conoscenza possibile.

Un esercizio politico, in senso etimologico.

Nel febbraio 2017 è nata l’idea di aprire un Cantiere delle Idee, che valorizzasse le competenze nascoste in tante università e pratiche diffuse di partecipazione sociale, per capire se, attraverso un percorso rigoroso di ricerca e riflessione collettiva – un «purgatorio» di pensiero dove ciascuna e ciascuno rinunciava a categorie, pre- e post-giudizi sulla condizione economica, sociale e politica attuale – si potessero condividere nuovi pensieri e pratiche da mettere al servizio della comunità politica.

IL 19 MAGGIO, A FIRENZE, il Cantiere presenta la sua prima ricerca, sulle classi popolari (il «popolo») e sul loro rapporto con le questioni sociali e politiche, realizzata intervistando decine di persone nei quartieri popolari di Milano, Firenze, Roma e Cosenza.

Cosa emerge, fondamentalmente? Che «il popolo» detesta la politica esistente, ma vorrebbe una politica forte e capace di dare una visione della società. Che vuole una politica innovativa, ma si aspetta che siano soprattutto altri a costruirla, con poca possibilità e voglia di mettersi in gioco direttamente.

Che si è sospettosi verso lo Stato, ma si invoca il suo intervento. Che si vive come individui, ma si è stanchi di essere solo individui e si vorrebbe vivere una socialità densa, garantita da istituzioni che stabiliscano regole capaci di dare ordine alla vita sociale. Che non solo si è piegati dalla mancanza di lavoro propria o dei propri familiari, ma si è piegati dal lavoro stesso: come si lavora? Quanto? Con che salario? Con quali rapporti tra capi e subordinati? Non ne parla più nessuno.

TUTTI QUELLI CHE LAVORANO sono insoddisfatti di una o più di queste cose. Ma non esiste, nella politica contemporanea, una lingua per parlare di questa insoddisfazione in modo efficace, se non per spostarla verso alcuni capri espiatori.

E infatti, funziona: c’è, tra diversi intervistati, la convinzione che gli immigrati «sono troppi». Su di loro alcuni rovesciano l’immagine dei potenti, troppo forti e invisibili per essere affrontati direttamente: gli immigrati vengono così definiti privilegiati e prepotenti.

Nessuno, però, addebita agli immigrati i problemi dell’Italia, per cui vengono invece accusati i politici, ovviamente, ma anche «i ricchi» (che nella nostra società sia il denaro a comandare lo hanno presente tutti gli intervistati), gli imprenditori, i banchieri, e «gli italiani egoisti».

La maggior parte degli intervistati invoca proprio questo: una ‘riforma’ del popolo stesso, un nuovo modo di vivere insieme.

Emerge, quindi, una rappresentazione molto contraddittoria, densa di ‘opposti che si attraggono’. Ma è una realtà popolare tutt’altro che pacificata. Non ci sono alibi: se si vuole ricominciare a parlare a questa parte di società, lo si può fare. Ma non con gli strumenti e le parole di quarant’anni fa.

Per il Cantiere delle Idee, questo è l’inizio di un lavoro.