Nel monolocale di Svetlana, alla periferia di Bucarest, c’è una nutrita libreria – ci informa Mircea Cartarescu nel racconto Rem -, una libreria in cui, però, non potranno mai trovare posto saggi sulla «resistenza dei materiali». Svetlana cambierebbe idea se leggesse Menti parallele di Laura Tripaldi (effequ, pp. 228, euro 15). Con le parole dell’autrice, Menti parallele è – riecheggiando l’espressione di un altro scienziato filosofo, Jakob von Uexküll -, «una passeggiata» in un «labirinto popolato di mostri» per scoprire – come recita il sottotitolo – l’intelligenza dei materiali.

LA TESI CENTRALE del libro, in cui una vasta cultura scientifica s’intreccia con una cultura umanista altrettanto ampia, è presto detta: «l’intelligenza emerge dalle relazioni». Per Tripaldi dobbiamo liberarci dall’idea antropocentrica secondo cui l’intelligenza è solo quella localizzabile in organi monadici (come il cervello umano); l’intelligenza è invece uno dei tanti processi risultanti dalle relazioni che percorrono e costituiscono l’intera materia.

Ecco, allora, i mostri con cui dialoga l’autrice: «menti orizzontali e delocalizzate», «capaci di pensare con tutto il proprio corpo» nel tempo e nello spazio in cui si interfacciano con altre menti. E, continua Tripaldi, «l’interfaccia non è una linea immaginaria che divide i corpi , ma è piuttosto una regione materiale, caratterizzata da proprietà che la rendono radicalmente diversa dai corpi che l’hanno prodotta». Radicalizzando la lezione di Simondon, Tripaldi sostiene pertanto che i materiali non sono «oggetti passivi», ma «sono determinati dalla nostra vita socioculturale e a loro volta determinano la nostra relazione con il mondo». La materia, insomma, è intrinsecamente «cooperativa e relazionale» e, ci piaccia o meno, anche noi umani siamo materia.

Femminista, materialista ed esperta di nanotecnologia, Tripaldi si inserisce così nella scia di altre autrici «ibride», quali la biofilosofa Haraway e la filofisica Barad, per ricordarci che «non si tratta di accettare o rifiutare la tecnologia in blocco», ma «di entrare in relazione con la materia che ci circonda in modo migliore di come abbiamo sempre fatto», soprattutto oggi, «in un’epoca in cui siamo chiamati a riflettere sul nostro impatto sul pianeta».

Ecco perché tra i tanti mostri – dalle melme policefale ai soft robot, dai cefalopodi alle cellule inorganiche, dai giardini chimici ai cyborg – che incontriamo in questo testo di «scienze innaturali», quello che assume il ruolo di protagonista è il ragno (con il suo «concatenamento di fili in un’impossibile simmetria di spirali» come scrive China Miéville), esempio illuminante di che cosa può una «mente estesa» o una «cognizione incarnata», di quel divenire-in-relazione, che lega inscindibilmente «corpo, mente e ambiente» in quell’in/finito «e…e…e» in cui, tra gli altri, si forma quel fenomeno complesso – «intrecciato o intessuto insieme» – a cui diamo il nome di vita: «la vita è il risultato di una struttura relazionale, più che una proprietà specifica di un certo tipo di materia».

SOSTENUTA da un’autentica volontà di farci cogliere appieno la dirompenza della sua prospettiva, l’autrice ci conduce, passo dopo passo, in quel territorio che, per dirla con Derrida, costituisce il limite abissale dell’umano, quel territorio dove i confini metafisici «che dividono l’umano dall’inumano, il naturale e l’artificiale, il vivente dal non vivente» non hanno più senso. Quel territorio che non prevede «l’uomo in una posizione di dominio» e dove è possibile materializzare una nuova alleanza sensuale tra agenti, concetti e organismi sempre più aggrovigliati e quindi meravigliosamente mostruosi.