La tragica morte dell’ambasciatore Attanasio ha portato al centro delle cronache il Congo, le sue risorse e i suoi drammi. Ma se si vuole onorare la memoria dell’ambasciatore Luca, come lo chiamavano affettuosamente, del carabiniere Vittorio Iacovacci e dell’autista Mustapha Milambo il Congo dovrebbe rimanere al centro dell’agenda politica europea.

PUNTO DI PARTENZA rimane il «Rapporto Mapping» redatto 10 anni fa dalle Nazioni unite sulle violazioni dei diritti umani commesse nella Repubblica democratica del Congo tra il marzo 1993 e il giugno 2003. Un documento decisivo che denuncia la violenza nei confronti di oltre 40mila donne, definisce i contorni in cui sono avvenute un numero imprecisato di morti e la fuga di oltre 3 milioni di persone. È un punto di verità che si dipana negli anni e include le cause delle violenze odierne. Infatti, dieci anni non sono bastati per assicurare alla giustizia i responsabili dei crimini.

Nel Rapporto lungo 581 pagine viene descritto il massacro di Ntoto (Nord Kivu), in cui dozzine di contadini hutu Banyarwanda («gente che viene dal Ruanda») furono uccisi da gruppi armati Mai-Maî hunde e Nyanga in seguito a discorsi di odio da parte di politici locali che chiedevano di «sterminare i banyarwanda», in un contesto in cui le popolazioni Hunde e Nyanga del territorio di Walikale credevano nell’imminenza di un attacco da parte degli hutu. Le tensioni si erano create a seguito di contestazione da parte delle altre popolazioni dei diritti politici e fondiari dei Banyarwanda, il cui peso demografico era significativamente cresciuto negli anni.

IL TUTTO È AMPLIFICATO dagli effetti del conflitto nel vicino Ruanda fino al genocidio che ha spinto circa due milioni di hutu ruandesi a rifugiarsi nel vicino Zaire (l’attuale Repubblica democratica del Congo). Tra loro vi erano anche genocidaires, inclusi molti Interahamwe, membri della milizia responsabile della maggior parte dei massacri. L’effetto è stato uno spostamento del conflitto hutu-tutsi in territorio congolese, dove gli Interahamwe hanno iniziato ad attaccare i tutsi congolesi a partire dal 1996, con incursioni anche in Ruanda. Questo a sua volta ha provocato la diffusione di armi tra i tutsi congolesi e il sostegno militare del Fronte patriottico ruandese (il movimento rivoluzionario ruandese di Paul Kagame)

IN QUESTO CONTESTO l’Uganda decide di appoggiare con l’invio di militari i tutsi congolesi minacciati dagli Interahamwe. Anche se l’obiettivo pare essere quello di assumere il controllo del Congo Orientale per sfruttare le sue risorse naturali e cogliere altresì l’occasione per rovesciare il regime di Mobutu. Per quest’ultimo obiettivo i presidenti dell’Uganda Museveni e del Ruanda Kagame fondano con Laurent Désiré Kabila l’Alliance of Democratic Forces for the Liberation of Zaire (Afdl): è l’inizio della prima guerra del Congo.
Tra l’ottobre 1996 e il maggio 1997 cresce la spirale di violenze l’Afdl smantella i campi profughi hutu. L’esercito zairese non combatte, i soldati sono senza stipendio e disorganizzati, commettono saccheggi e stupri sulle popolazioni locali. A maggio 1997 Mobutu fugge in Marocco e Laurent Désiré Kabila si autoproclama presidente della Repubblica del Congo. L’Onu stima che 200.000 hutu siano stati uccisi. Fine primo atto.

A partire dall’agosto 1998 c’è una rottura tra i tutsi congolesi e il regime di Kabila. I tutsi ribelli fondano il Rassemblement Congolais pour la Democratie (Rcd) sempre con il sostegno di Ruanda e Uganda. In breve i ribelli prendono il controllo dell’est del Paese. Kabila per non essere sopraffatto chiede e ottiene il sostegno di Angola, Namibia, Zimbabwe e Ciad. È la seconda guerra del Congo, che dura tre anni. Nel 2003 si crea un governo di transizione ma ad est milizie armate e soldati congolesi continuano ad agire: la Regione resta in una condizione di insicurezza permanente.

Per dieci anni, tutte le parti coinvolte si sono rese colpevoli di gravi e massicce violazioni dei diritti umani. L’Onu ha avviato un processo per individuare i responsabili e tra mille difficoltà è stato istituito un team di specialisti sotto la supervisione dell’Alto commissariato delle Nazioni unite per i diritti umani (Ohchr), con oltre 2,7 milioni di euro di budget.

PER SETTE MESI, da ottobre 2008 a maggio 2009, 33 esperti congolesi e internazionali di diritti umani hanno raccolto documenti e intervistato testimoni e nonostante i tentativi di bloccare il Rapporto da parte di Ruanda e Uganda l’Ohchr ha reso pubblico il documento in data 1 ottobre 2010. Evidenziando violazioni che «presentano schiaccianti elementi di genocidio», ma senza rivelare l’identità delle circa 200 personalità di spicco coinvolte nei crimini.

Nel marzo 2016, il dottor Denis Mukwege ha presentato all’Ohchr una lettera firmata da quasi 200 ong in cui si chiedeva la pubblicazione del database che identifica i principali responsabili dei crimini descritti nel «Mapping Report», ma l’Alto commissariato ha risposto che «la divulgazione al pubblico di queste informazioni potrebbe mettere in pericolo le vittime e i testimoni delle suddette violazioni». Mukwege è tornato sul tema durante la cerimonia in cui gli è stato conferito il Nobel per la Pace (10 dicembre 2018), ma i nomi non escono.

E COSÌ DA 25 ANNI la Regione dei Grandi Laghi è in balia del binomio violenza-sfruttamento. Eppure Mukwege continua a chiedere «la creazione di un tribunale internazionale per il Congo, che non deve restare un bastione dell’impunità». Lo stesso Papa Francesco nell’ultima enciclica Fratelli Tutti afferma che «gli accordi di pace sulla carta non saranno mai sufficienti. Occorrerà andare più lontano, includendo l’esigenza di verità sulle origini di questa crisi ricorrente. Il popolo ha il diritto di sapere che cosa è successo».
Senza questo diritto senza l’arresto dei responsabili non ci sarà pace in Congo e la morte dell’ambasciatore italiano svanirà come un fatto di cronaca.