Nelle galassie del desiderio
Cultura

Nelle galassie del desiderio

Un'opera dell'artista Kim Joon

GEOGRAFIE La raccolta di saggi della statunitense Chelsea Hodson, «Stanotte sono un’altra», per Pidgin. La modalità di scambio tra oggetto e soggetto è la stessa della performance «Rhythm 0» di Abramovic

Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 2 aprile 2022

La raccolta di saggi della statunitense Chelsea Hodson, Stanotte sono un’altra (pp. 224, euro 15), appena pubblicata da Pidgin nella traduzione di Sara Verdecchia, è un’esplorazione dei contorni dell’inquietudine vivendo in un corpo desiderante e desiderato. Hodson ci conduce all’interno della sua vita grazie al respiro sincopato di racconti personali che assumono carattere saggistico. Possono somigliare a pagine di un diario intimo, tuttavia si posizionano in una sorta di passato non ancora tale, i cui contraccolpi prendono sede in un presente in cui quel «passato giovane» non è ancora relegato alla dimensione del ricordo.

La narrazione della sua adolescenza in Arizona e della sua giovinezza newyorkese emerge frammentaria e senza l’ordine che potrebbe evocare la cronologia di un memoir; possiede la luccicanza di quelle sensazioni che restano aggrappate al corpo a cercare aperture per dimorarvi a lungo. La voce narrante inanella a flusso continuo le esperienze che restano impresse sul suo corpo in continua mutazione. Ciò crea un effetto di immediatezza tale che è come se stessimo imparando di lei alla medesima velocità con cui lei sta imparando se stessa.

LA MAGGIORANZA di questi saggi sono incentrati sui sentimenti della narratrice riguardo all’oggettivazione di questo corpo – mentre fa la modella ad esempio. Non è questione solo del suo corpo in quanto protagonista ma di quello dell’altro o meglio, della relazione tra i due. Hodson spiega come il mestiere di modella le abbia lasciato la «traccia» di alcune sensazioni fisiche piacevoli. Un tocco altrui, gradevole e mai invasivo, nei tempi preparatori delle sfilate: essere toccata le ricordava allora il rapporto tattile con sua madre.

Il primo capitolo parla dell’esperienza di lavoro alla Nasa, durante la preparazione di una missione su Marte. Sulle prime tutto sembra inventato o al limite del surreale, perché niente di quello che pare straordinario è descritto come tale. Insomma: lo sbarco del lander sul pianeta rosso pare un evento come un altro. Hodson con acuto disincanto gioca con la descrizione di eventi eccezionali in quanto estranea, senza una vera e propria partecipazione in termini d’entusiasmo. Mentre l’équipe attende febbricitante il debutto della missione marziana, Chelsea Hodson confessa di aver vissuto la realtà di quei giorni pensando soprattutto al suo desiderare, nello specifico alla sua relazione di allora con un ragazzo, Cody.

E infine le due realtà si mescolano: «A quel punto avevo imparato quasi tutto su Marte – la temperatura, la presenza del manto ghiacciato, la velocità del vento – ma quando cercai di descrivere Cody a un amico che non l’aveva mai incontrato, riuscii solo a dire ’Lui ha questa presa su di me’. Feci il gesto di disintrecciare una corda immaginaria dal mio stomaco, continuavo a slegarla. Il ritorno alla mia vita precedente mi era sempre parso inevitabile, ma ora mi sentivo così distante».

In uno dei saggi seguenti, sarà ancora questione di desiderio. Bisogna considerare, infatti, che tutto il libro è costruito come una mappa del desiderio, che avvampa o si cela nelle pagine in diverse sezioni, che rappresentano variazioni sul tema. Si tratta di capitoli dai titoli evocativi, che non seguono alcun cursus cronologico.

NEI SEDICI SAGGI, uno fra tutti racconta del desiderio fantasmatico e di quello a distanza, che si autoalimentano senza pretendere un ritorno dall’altro ma che si nutrono anche grazie al pensiero desiderante. La voce narrante di Hodson richiama alla memoria una sua ossessione adolescenziale quando aveva scritto una lettera a un membro di una band pop, convinta che la forza del desiderio le avrebbe fatto incontrare il suo cantante del cuore. Mette in relazione questa fissazione con i modi più quotidiani in cui sperimentiamo il desiderio a distanza, al telefono o in chat, intuendo che nella solitudine delle nostre camere – anche oltre l’adolescenza – quell’«aspirare» può assumere profili talvolta deliranti.

Mentre ne esplora le meravigliose e molteplici forme, la prosa di Chelsea Hodson è vivida, sincopata e danzante, con i ritmi di una musica non melodica e talvolta scioccante. Nel capitolo «Pietà per l’animale», pubblicato singolarmente in lingua inglese nel 2014, chiede a noi e a se stessa: «Quanto può sopportare un corpo?». Risposta: «Quasi tutto». A riprova, cattura varie istantanee della fisicità prestazionale che le donne mettono in atto secondo codici appresi, spesso loro malgrado, per catturare lo sguardo maschile. A modello ci sono alcuni dettagli della vita della voce narrante, che parla del suo corpo in quanto essere umano, donna, animale.

PER L’AUTRICE, questo corpo desiderato dagli uomini, controllato dalla società e mercificato dalla cultura, l’aveva sempre seguita come qualcosa di prezioso ma inconsapevole. Abituato a essere osservato, a osservarsi, meno a osservare. Con modalità gemelle a quelle che Marina Abramovic scelse per la performance Rhythm 0 del 1974 (in cui l’artista posizionò 72 oggetti su un tavolo permettendo al pubblico di usarli a proprio piacimento su di lei), la voce di Hodson ci suggerisce il sollievo di trasformare l’io in oggetto, ma scegliendo di farlo per una volta consapevolmente. Grazie all’apprentissage di Abramovic, decostruisce la relazione soggetto-oggetto: diventando la cacciatrice, a quelli che osservano spetta il ruolo dell’animale cacciato. Sono allora gli osservatori e i lettori a essere esaminati e così forse i lacci delle dinamiche soggetto-oggetto possono essere finalmente sciolti.

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