Il sorriso della gratitudine sconfigge i segni della stanchezza sul volto di Aida Begic, reduce da un viaggio in macchina di due giorni, destinazione Bergamo Film Meeting. Protagonista, insieme ad Andrea Arnold, Agnes Kocsis e Teresa Villaverde della sezione «Europa: Femminile Singolare», la regista bosniaca, che oggi terrà una masterclass al BFM Lab, presenta per la prima volta in Italia anche i suoi cortometraggi «scolastici», oltre ai segmenti di film collettivi come Do Not Forget Me Istanbul e I ponti di Sarajevo piccoli pezzi di un mosaico di diversa natura e colore ancora in piena composizione.
Suoni delicati, lontani frastuoni del passato e fragori del presente sono per la regista bosniaca la grammatica essenziale dei suoi ritratti femminili, così lontani dalle presenze stereotipate del cinema balcanico; una costante paradossale e mutevole capace di declinarsi nella piccola poesia quotidiana di un villaggio abitato da sole donne, l’esordio Snijeg del 2008, ma anche nel devastato panorama urbano ed emozionale di una giovane islamica, il secondo film Buon Anno Sarajevo. Un’identità femminile che lotta per l’emancipazione, anche religiosa, in uno stato «senza Dio» prima delle guerra dei Balcani, stretta fra tare patriarcali, frustrazioni del futuro e sacrifici radicati nei legami ancestrali con la propria terra. Due soli lungometraggi all’attivo dunque, e un terzo in preparazione: «Si chiamerà Ballad, racconta una storia d’amore nella Bosnia nel dopoguerra».

Il tema dell’amore è una novità nel tuo percorso da cineasta.

Sì, è la prima volta che affronto direttamente l’argomento. Cercherò ancora una volta di occuparmi di temi femminili attraverso il substrato sociale e di scavare nella psicologia delle donne. La condizione femminile in Bosnia è complessa e stratificata visto che è sempre stata una società a fortissima impronta patriarcale. Voglio esplorare la vita delle piccole comunità, come nel mio primo film, e sono molto felice di cercare nuovamente nelle donne del mio paese la forza e la bellezza del mondo. Questo film sarà un ibrido fra fiction e documentario visto che ho raccolto racconti di storie vere. Spero di cominciare alla fine di quest’anno.

Nei tuoi primi corti e anche in «Snijeg» la sensazione positiva di una realtà in transizione era fortissima, «Buon anno Sarajevo» invece sembra quasi riflettere sulla frantumazione della cosiddetta «speranza bosniaca». Che cosa è cambiato in questi anni?

Se mi guardo indietro vedo tanto ottimismo nei miei primi cortometraggi, quel momento di transizione, a partire dal dopoguerra, sfortunatamente non si è ancora concluso e questo ha portato il mio paese alla depressione, e a una situazione politica complicata dove la privatizzazione ha distrutto l’economia. I nostri sogni sono cambiati, la nostra memoria è come modificata, è una cosa che mi spaventa molto perché il ricordo dei giorni della guerra per molte persone è quasi piacevole. Questo significa che la realtà di oggi è ancora più grigia rispetto a vent’anni fa. Invece di progredire, o regredire, siamo in pausa, in un limbo, aspettiamo qualcosa senza sapere cosa, una situazione alla Aspettando Godot.

Quali sono le tue previsioni o le tue speranze per il futuro della Bosnia?

Malauguratamente anche le altre situazione europee non vivono un presente sereno e noi siamo dipendenti, in tutti i sensi, dagli altri paesi. La Bosnia pur essendo piccola è sempre stata contesa dalle grandi nazioni confinanti; a volte penso che siamo quasi uno specchio dei lati buoni e cattivi dell’Europa. Se le cose miglioreranno in Europa sarò lo stesso in Bosnia, non ci sono strade alternative e non credo che le giovani generazioni possano cambiare a patto che non siano trasportate da un cambiamento globale.

Tornando ai pericoli di idealizzazione di un passato anche di guerra, pensavo a un film come «Letters to Max» di Eric Baudelaire dove si percepiva una simile nostalgia nelle parole di un politico dell’Abkhazia dell’ex Unione Sovietica. Pensi che sia una sorta di «trappola» comune per gli stati «figli» di vecchi regimi? 

Siamo sempre stati una zona di interesse per la nostra posizione strategica, quello che non siamo riusciti a fare è creare dei ponti con il resto del mondo. Al contrario abbiamo aumentato il nostro distacco, per questo non si riesce a uscire da quel passato, trovando quasi conforto nelle antiche atrocità. La povertà crea il pericolo di un nuovo conflitto perché la gente non ha nulla da perdere. Non penso che avremo una nuova guerra ma ci sono tensioni altamente infiammabili in questo momento. Forse solo l’arte e la cultura, anche se suona troppo idealistico, possono unire le persone e creare legami che oltrepassano i confini.

Da qualche anno insegni regia all’accademia di Belle Arti di Sarajevo. Dal tuo punto di osservazione, anche la situazione del cinema bosniaco è in un limbo? 

Da parecchio tempo non fa che peggiorare: c’è soltanto un’unica risorsa che finanzia i film in Bosnia e comprende tutto, dai cortometraggi ai film, con un budget inferiore al milione di euro all’anno. I giovani non sono incoraggiati, non ci sono attrezzature, luoghi per la post-produzione… I miei studenti mi domandano: «Se è così difficile anche per te, noi come faremo?». Sorrido e cerco di spronarli al dialogo con altri paesi produttori, come se potessero essere loro i primi a creare i famosi ponti a cui accennavo prima. Siamo dipendenti anche nel cinema dall’Europa ma probabilmente questa è l’unica relazione di dipendenza che riesco ad accettare.