«La gente parla di barriere dettate dalla paura, a me sono sembrate barriere dettate dalla disperazione. Una volta rimosse, insieme alla paura, neanche i massacri e gli arresti avrebbero potuto rimetterle in piedi. Ho commesso tutte le sciocchezze che fanno i rivoluzionari troppo ottimisti…ho infranto ogni legge drastica e tutti i tabù, sono entrato in prigione sorridendo e ne sono uscito da trionfatore».

Alaa Abd el-Fattah è un pensiero libero in un corpo in gabbia, una mano che scrive dopo può – un pacchetto di sigarette, un rotolo di carta igienica – e una memoria da tirare come un elastico. Gli servono, mano e memoria, per continuare a produrre conoscenza e autocritica dietro le sbarre della prigione di massima sicurezza di Tora, al Cairo.

Alaa Abd el-Fattah è il più famoso prigioniero politico egiziano: arrestato la prima volta nel 2006, sotto Hosni Mubarak, poi durante il regime dei Fratelli musulmani dopo la rivoluzione del 2011, adesso con quello asfissiante del generale golpista Abdelfattah al-Sisi. È un informatico e un blogger, un gramsciano e un dissidente. E una delle menti più lucide del suo paese.

È il punto di riferimento politico delle generazioni più giovani, di chi a 18-20 anni era in piazza Tahrir. Tra loro anche Patrick Zaki che da Tora domenica ha fatto arrivare un messaggio alla fiera Più libri più liberi di Roma: «Leggete il nuovo libro di Alaa se volete capire l’Egitto».

Tradotti da Monica Ruocco, i suoi scritti dal 2011 a oggi (saggi, tweet, discorsi pubblici, la commemorazione per la morte del padre, Ahmed Seif al-Islam, avvocato e attivista tra i più noti e coraggiosi d’Egitto, colui che in eredità gli ha lasciato «una cella di prigione») sono oggi un libro. Non siete stati ancor sconfitti (pp. 288, euro 23) è merito della casa editrice Hopeful Monster e della sua collana La stanza del mondo curata da Paola Caridi.

Il percorso compiuto dall’attivista è in caduta. Su tre piani inclinati: i risultati della rivoluzione, il ruolo dello Stato e il significato della prigione. La storia della dissidenza egiziana del Terzo Millennio accompagna la discesa nel girone degli sconfitti.

Il primo piano inclinato: l’orizzonte della vittoria e della trasformazione della società muta con il passare dei mesi e degli anni, fino al buco nero della lacerante consapevolezza del fallimento.

La rivoluzione ha perso, Alaa ne è certo. E per strada ha perso anche la narrazione di sé, scippata dal regime controrivoluzionario che come una fenice è risorto semplicemente perché non è mai morto. Si è cibato delle ambizioni degli egiziani, le ha appassite, fino a trasfigurarle in un colpo di Stato su mandato popolare, «il golpe di Schrodinger», così lo chiama Abd el-Fattah, «sovrapposizione in cui ci si trova contemporaneamente davanti a un golpe e a una rivoluzione».

Il secondo piano inclinato è quello del ruolo dello Stato. Gli scritti del periodo subito successivo al 25 gennaio 2011 costruiscono la critica radicale all’istituzione statale, «male originario». Lo Stato va abbattuto perché riformarlo è un’utopia: eliminarne la duplice natura – repressione e paternalismo, controllo sociale e infantilizzazione della popolazione – significherebbe renderlo altro a sé.

Dieci anni dopo i fatti di piazza Tahrir l’autocritica dell’agire rivoluzionario conduce alla dolorosa consapevolezza del fallimento e alla conseguente «rinuncia al sogno»: l’obiettivo fattibile diventa la ricerca di unità contro la narrazione dominante, nell’idea di ottenere il minimo indispensabile sul piano dei diritti politici, sociali ed economici.

Una ritirata apparente che, seguendo le pagine, è prodotto diretto della reclusione. Il terzo piano inclinato. La cella passa di mano, dal rivoluzionario al controrivoluzionario: da primaria forma di resistenza diventa strumento principe della repressione e del monopolio della narrazione, così come il corpo del prigioniero passa dal controllo suo a quello del carceriere.

Il detenuto non ha più la gestione del proprio tempo né dello spazio di vita, subisce quotidianamente quello che la sociologa palestinese Ruba Salih (in riferimento alla vita individuale, prima che collettiva, dei palestinesi sotto occupazione israeliana) definisce spazicidio e tempicidio.

Ore in frantumi, in cui la privazione della formazione politica – attraverso il divieto a leggere, scrivere, informarsi, se non a piccole dosi – costringe Abd el-Fattah a un estenuante esercizio di memoria per ricostruire fatti, eventi, comportamenti collettivi da cui tirare fuori con i denti una visione totale.

Sullo sfondo resta la natura, comunque positiva e travolgente, della rivoluzione egiziana. Un evento che non è mai stato solo, ma che si è legato alle battaglie globali contro lo stesso modello politico e di sviluppo che, se assume forme diverse paese per paese, veste identici panni: burocrazia per attuare il controllo sociale, Stato-nazione per reprimere il dissenso, finzione di libertà tecnologica per occultare la persistenza del capitalismo. Alla fine «non siete stati ancora sconfitti».