Il concorso di Venezia 72 finora non funziona. I film sono poco eccitanti, senza fibrillazioni, non accendono mai anche un piccolo colpo di fulmine, e le cose migliori sono quelle fuori concorso, Wiseman, Spotlight o nella competizione di Orizzonti – un titolo, The Mountain, film israeliano con grandissima interprete di Yaelle Kayan, perché non metterlo in gara per il Leone?
Lasciamo fuori i «paragoni», meglio questo meglio quello, anche se certo al Marguerite di Giannoli preferisco l’irriverente Chant d’hiver di Otar Iosseliani, uno dei grandi maestri contemporanei (e che malinconia vedere Wiseman seduto solo in sala alla proiezione ufficiale…) approdato nel concorso locarnese, ma si sa la fabbricazione di un festival segue alchimie strane, questione di tempistiche, di strategie delle distribuzioni, e ovviamente di gusti.

Eppure dopo pochi minuti nella Sala buia mattino presto i dubbi ritornano. È il giorno dell’Attesa, opera prima di Pietro Messina, e primo dei quattro film italiani in concorso (ora aspettiamo Guadagnino, Bellocchio e Gaudino) una delle scommesse predilette della Mostra che lo ha annunciato come una grande sorpresa.
Messina ha già un marchio di qualità, è l’assistente di Sorrentino, è prodotto da Indigo come il regista di Youth, ha nel cast una star che è una bravissima attrice come Juliette Binoche, tutto quello che mediaticamente serve a un tappeto rosso.                                                                                                                                                                                                                 

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Ma dai primissimi minuti, una voluttuosa ripresa della statua di Cristo che plana sulla caviglia fetish con tacco a spillo su cui scorre la pipì di colei che scopriremo Binoche, sappiamo già cosa ci aspetta. Un cinema enfatico, pomposo, di chi pensa che esibire le immagini sia una garanzia di stile. E invece non è neppure un «vizio di forma».
Da lì si inanellano planate su dettagli inutili, trionfi di specchi, suggestioni antonioniane a mezzo di segreterie telefoniche, tuffi acquatici da videoclip anni Novanta, la citazione del Viaggio in Italia rosselliniano in chiave freudiana per mettere in scena la menzogna di una madre che ha perduto il figlio amatissimo (l’ispirazione viene da Pirandello) morto non sappiamo come (ed è la cosa migliore del film) che alla giovane e molto bella fidanzata dice che è in viaggio, che il lutto della casa è per suo fratello, che lui, il ragazzo, si è dovuto assentare per questo.

Ragioni familiari in una Sicilia pasquale piena di cristi e di santi, donne vestite di nero, scuri chiusi e tenute nobiliari, silenzi e gesti spiati dalle porte. Il cielo è grigio, i sapori dei cibi voluttuosi. La madre (Binoche) cerca così di rimandare l’addio, di respirare ancora un poco l’odore di chi amava, e di sapere su di lui qualcosa: come era lontano da casa, a Parigi dove viveva, cosa faceva con la fidanzata (Lou de Laage, bocca imbronciata alla Brigitte Bardot), quali erano le ragioni dei suoi silenzi e della sua tristezza.
Quando arriva Giuseppe? La domanda della ragazza, quasi un mantra, cade nel vuoto come i messaggi sul cellulare del suo ragazzo, le ore cadono lente, incontri inattesi, passeggiate al lago, stravaganze della madre, improvvisi rabbuiamenti, silenzi, sigarette fumate in giardino e progetti di itinerari alla scoperta del luogo.

Poteva essere un corpo a corpo indocile, la messinscena del dolore e la ricerca disperata di un suo antidoto nella vita, nell’incosapevolezza, in quello che può sembrare un barlume di normalità. Cosa cercano queste due donne, speculari l’una all’altra nell’ostinazione a voler credere qualcosa, anche la ragazza, Jeanne, che non si interroga troppo sul silenzio e attende forse per rimuovere qualcos’altro? Un litigio l’estate precedente per il quale si erano quasi lasciati.
Ma tutto questo nel film non c’è, perché quelle immagini roboanti sono vuote di sostanza, il dolore diventa la sua ostentazione soffocata tra metafore (processioni, la Pasqua) e il compiacimento di chi come si dice «si guarda filmare». Sono lì senza mistero, senza corpo e verità.
Può bastare la certezza delle «belle immagini» a scavare nel profondo, a tendere i fantasmi, a diventare narrazione? Messina ne è convinto, e vi ci tuffa come la giovane protagonista ex-campionessa di nuoto, ma alla fine si affida alla parola per dar vita alle sue immagini e dirci di paure, rimpianto, lutto. Mentre la macchina da presa continua la sua corsa.