Che forma ha il desiderio? E soprattutto (ma è la stessa cosa) qual è il tempo del desiderio? Andrea Dileva, quarantenne professore di greco, è esperto di aoristi, perfetti e mitologia classica. Normale, per uno che si occupa di tempi passati e leggende, avvertire come sentimento più persistente il tramonto – se è vero che ogni cosa esterna al corpo crea un bilancio affettivo al suo interno –, e spingere i suoi desideri non verso un futuro possibile, ma indietro a un passato quanto mai prossimo e fisiologicamente irripetibile. I sentimenti persistono, il corpo però una mattina si svuota. Non tutto insieme, poco alla volta.

UNA MATTINA Andrea Dileva si sveglia e come Gregor Samsa, dopo sogni inquieti, è un po’ meno umano di prima: non c’è battito sotto al petto, non c’è più un cuore a pulsare. È vivo, di questo è certo, perché fantasmi non ne vede («il fantasma, come tutto il resto, è nell’occhio di chi guarda») e Laura, sua moglie, sta come sempre al suo fianco al risveglio. Ma il cuore non si vede né si sente. Nessuno riesce a spiegare quanto è accaduto, né Angelica, la dottoressa amica di una vita che studia il caso di Andrea su Jack, uno scheletro in plastica di un metro e venti, né la letteratura. Non c’è traccia di un caso simile nel Libro delle meraviglie di Flegonte, non si può paragonare l’assenza di cuore di Medea a quella di Andrea, perché nel primo caso è solo una metafora e nel secondo un buco nero, un’ombra, un negativo. «Ci aspettiamo che la fine sia qualcosa che prevede una chiusura di sipario. Forse invece la fine viene da dentro, e se è dentro, la fine c’è sempre stata. Come nel cappello del prestigiatore, il coniglio c’è già».
Se fosse una storia fantasy qualcosa accadrebbe, ogni equilibrio verrebbe rovesciato, quantomeno Laura uscirebbe in strada gridando dal terrore, provando ribrezzo per quella specie di zombie che fino a ieri sera, fino a ora, era suo marito.

MA QUESTO non è un fantasy e nella realtà la vita deve continuare nonostante, non fosse che per contraddire la morte, o perché «vivere fa morire», o per confermare il detto «finché c’è vita c’è speranza» (e ce n’è molta, avvertiva Kafka dall’esergo di un precedente romanzo di Chiara Valerio, Almanacco del giorno prima, «ma nessuna per noi»). Forse è tutta colpa dei desideri, forse Andrea non doveva desiderare così esattamente Carla da farne la sua amante, forse non doveva desiderare nemmeno il figlio di Carla e la paternità che con Laura non è arrivata – scusa Corteccia, sei adorabile onnipresente e pieno di risorse ma pur sempre un gatto, un gatto che si diverte a staccare le lettere dalla scritta Harvard sulla felpa di Andrea –, perché anche Claudio, il marito di Carla, ha desiderato allora che Andrea scomparisse. E lui, poco alla volta, scompare: cuore, polmoni, fegato. Respirare ancora, ma con più fatica. Digerire senza sintetizzare. Bisogna stare attenti a quello che si desidera.

CHIARA VALERIO avrebbe potuto scrivere un romanzo sulla scomparsa, e invece si è spinta più in là, scrivendo con Il cuore non si vede (Einaudi, pp.146, euro 17,50) la formula chimica della paura della scomparsa, e quella della scomparsa degli affetti: «la paura più grande è che le cose scompaiano senza motivo. E questo perché gli esseri umani sono sinceramente incapaci di accettare che le cose scompaiano senza motivo. E spesso si affannano nello stabilire rapporti causali folli e ragionevoli, superstiziosi talvolta». Una reazione che ci riguarda tutti, come fossimo risultati prevedibili di un bilanciamento di elementi, ma solo fino a un certo punto. Perché l’amore funziona là dove non arrivano i numeri, le previsioni, le statistiche e forse nemmeno gli organi che ci portiamo dentro: da un certo punto in poi. Ecco allora che Andrea non muore perché ha intorno persone che svolgono le funzioni dei suoi organi, perché il contrario della solitudine è lo stare in vita.