Era così ovvio che non c’è stato bisogno di farci caso: la folla adunata per invadere il Campidoglio era composta esclusivamente di bianchi. Una scena mai vista – ma, stranamente familiare. Dove l’abbiamo vista, dove ce l’hanno raccontata, una folla bianca davanti a un luogo istituzionale, pronta a sfondare? «C’era una folla radunata di uomini, tutti bianchi, e altri arrivavano da tutta la campagna circostante…».

«Si muovevano sotto la luce dei lampioni, severi, relativamente silenziosi, molti armati, alcuni in stivali e speroni; uomini decisi, feroci». È L’autobiografia di un ex uomo di colore di James Weldon Johnson (1912): la scena di un linciaggio. L’abbiamo vista al cinema (Il buio oltre la siepe), l’abbiamo letta nei romanzi (Le avventure di Huckleberry Finn). Tiro giù un libro dallo scaffale: Without Sanctuary. Lynching Photography in America, catalogo di una mostra del 1998 a New York. Ed eccoli: una massa di fronte al municipio di Duluth, Minnesota; un’altra che, come i trumpiani che sfondano le finestre del Campidoglio, abbatte un portone (municipio? carcere?, tribunale?) per impadronirsi di un detenuto e ammazzarlo – San José, California.

Nelle foto di Without Sanctuary ci sono donne, bambini. Spesso li vediamo sorridere. Molti sono vestiti a festa, gli uomini tutti col cappello. Il linciaggio è un rito che consolida le identità sopprimendo l’estraneo. A Fayette County, Tennessee, 1915, chiudono le scuole per permettere ai bambini di partecipare. «Per tutta la mattina cliccavano le kodak… I fotografi hanno installato una stamperia portatile e hanno fatto soldi con le foto del nero linciato». Un corpo nero bruciato, una cartolina: «Questo è il barbecue di ieri sera. Nella foto io sono quello a sinistra, ci ho fatto un segno sopra. Tuo figlio Joe»: la manda un figlio a una madre, con orgoglio. Al Campidoglio gli invasori si fanno selfie e li postano su facebook; odiano i media ma li eccita sapere che sono in tv. Sempre, la polizia lascia fare: «Non si vede uno sceriffo, un governatore, un poliziotto, un colonnello, un sacerdote, nessun esponente di legge e ordine…» (Mark Twain). In più di cento anni, gli Stati Uniti non sono riusciti a varare una legge sul linciaggio. La violenza razzista continua fino al movimento dei diritti civili (Emmett Till, Andrew Goodman, Michael Schwerner, James Earl Chaney, Viola Liuzzo e innumerevoli altri) e agli omicidi di polizia quest’anno, col ginocchio sul collo.

Naturalmente, non è la stessa cosa: a Washington, il razzismo non era il movente immediato, ma era implicito nella costituzione nella folla. Forse per lo più non intendevano sequestrare e uccidere, ma le armi c’erano e non so che sarebbe successo se avessero messo le mani su Nancy Pelosi (un complotto per rapire la governatrice democratica del Michigan è emerso pochi mesi fa). Sempre, sono persuasi di essere non i violatori ma i paladini dell’ordine.

Se vogliamo forzare un poco l’analogia, il linciaggio serviva a restaurare la purezza della comunità dopo una violazione sessuale (più spesso presunta che vera); a Washington, i manifestanti erano convinti di essere lì per restaurare la purezza democratica violata dai «brogli» elettorali (comunque, QAnon accusa Hillary Clinton di una colpa sessuale, la pedofilia). Il linciaggio era presente come una memoria culturale, un modulo implicito capace di dare forma al comportamento di massa in contesti paragonabili. Così, lo storico Joe Williamson legge l’onda di linciaggi razziali a cavallo del ‘900 negli stessi termini in cui molti osservatori hanno letto il montare del trumpismo: un tentativo di compensare un declassamento, una «perdita di autonomia sessuale ed economica» a seguito dell’emancipazione dei neri e della crisi agraria allora, della crisi economica e dall’affermazione dei diritti di neri, latini, donne, migranti, oggi.

Due ultime analogie e differenze. Davanti alla folla, nelle scene classiche di linciaggio, da Mark Twain a Harper Lee, si erge un uomo solo che eroicamente sfida gli aggressori e li ferma sulla porta del carcere. Anche a Washington c’era un uomo in piedi di fronte alla folla – ma per incitarla e aizzarla; invece di questo immaginario supereroismo individuale abbiamo visto piuttosto l’umile resistenza collettiva dei lavoratori che hanno salvato le carte e permesso di tenere la seduta che ha confermato l’elezione di Biden.

E c’è sempre qualcuno dietro alla folla. Scrive lo storico Louis F. Litwack: «È stato comodo dare la colpa dei linciaggi ai bianchi delle classi inferiori»; certo, erano loro a metterci mano, «ma spesso con l’approvazione e a volte con la partecipazione attiva di bianchi delle classi più alte», dei gruppi dominanti che traevano potere e profitto dal terrorismo razziale e dalla subalternità di classe.

Anche a Washington in primo piano c’erano quelli che i media chiamano «bifolchi», «barbari». Ma dietro di loro stavano invisibili i fratelli Koch, la Fox News di Murdoch, la famiglia Coors, gli innumerevoli think tank finanziati dai grandi imprenditori della finanza e del commercio, che (come ha mostrato Marco D’Eramo in Dominio) hanno costruito un’egemonia della destra radicale sulla mentalità di massa e sulla politica degli Stati Uniti. Non li abbiamo visti sfondare le finestre del Campidoglio, ma c’erano. E anche quando potrà sembrare che Trump sia sparito, ci saranno ancora.