Uno spilungone dinoccolato con il berretto calato in testa si avventura lungo la Mother Road, la Route 66, con una chitarra di metallo National Duolian del 1932 e una copia di Furore, il romanzo capolavoro di John Steinbeck che racconta la migrazione biblica di centinaia di migliaia di famiglie delle Lower Plains (Texas, Arkansas, Missouri e soprattutto Oklahoma) in fuga dalla Dust Bowl verso la California, «paese del latte e del miele»: «Non ho mai pensato alla musica che si suona nel romanzo, ma alla musica che il romanzo mi suggeriva. Ho solo dato voce a un’esigenza interiore, di trasformare in musica quello che Steinbeck mi aveva trasmesso». Il viaggio sonoro di Simone Massaron, milanese classe 1971, parte da lontano, dall’improvvisazione free e dal jazz, dalle collaborazioni con Elliot Sharp, Marc Ribot, e Nels Cline (il chitarrista dei Wilco), ma è con questa tappa letteraria che la sua musica si fa poesia.

È una chitarra rabbiosa ed effettata su Opening (Apocalypse) e sulla conclusiva struggente Furore; è il folk minimale di Tom Joad e Ma Joad e Tom’s Dust. È il suono della polvere sospeso nell’aria, dei solchi della terra scavata dall’acqua, delle voragini incise sui volti delle anime migranti morte di fame, trasformati in melodie cristalline e piccole sinfonie notturne. Oltre al «testo sacro» del Premio Nobel, Massaron ha fatto bottino consultando l’archivio fotografico del Centro Studi e Archivio della Comunicazione di Parma (CSAC), che detiene un ricco fondo della Farm Security Administration.

Le abbaglianti  foto in bianco e nero di Dorothea Lange fanno da sfondo anche allo spettacolo dal vivo che il musicista sta proponendo in giro per l’Italia in questi mesi: «Penso che l’uomo sia inscindibile dal musicista. Questo libro ha rafforzato in me il valore e il peso che ho sempre dato alla dignità di un individuo e ai suoi diritti di base. È drammatico pensare a quanto Steinbeck sia ancora attuale». Le chitarre, tante e diverse, acustiche ed elettriche che Massaron ha impiegato, hanno dettato il suono, ora esile, ora metallico, ora distorto, che il produttore Stefano Castagna (definito un «Daniel Lanois italiano») ha sapientemente cucito in un appassionante abbecedario di Cosmic American Music: «C’è una bellissima immagine nel libro, la pioggia che lascia le sue impronte a forma di goccia sulle foglie di grano coperte di polvere. Una metafora della dignità degli Okies e con essi di tutti i migranti».

Lucentezza e sporcizia, soffocamento e candore insieme. «Ogni forma di musica rappresenta il suo periodo storico. Oggi puoi ascoltare cose che per il loro incredibile vuoto di contenuti rappresentano la disperazione di tutti. Solo che probabilmente non sono state pensate per questo». Il viaggio di Massaron è ancora lungo.