Carmen è un abito rosso. Una figura che danza da sola, sotto l’unico punto di luce al centro della scena, in un silenzio sporcato soltanto dal rumore ritmico dei passi. L’ampia gonna che risale sensuale sotto i movimenti del corpo, scosso e portato dalle braccia che ne sono il vero organo motore. Carmen è un fiore rosso. Tenuto a lato del capo rasato della performer, ironica concessione all’iconografia del personaggio. C’è in questa immagine iniziale, che precede l’ingresso della musica, quasi una traccia dello spettacolo che Dada Masilo ha portato sul palcoscenico del teatro Brancaccio per Romaeuropa festival. Una danza che coniuga energia fisica, composta sensualità, suadente eleganza…
Carmen è anche un mito della modernità, naturalmente. Come dimostrano le tante variazioni che si sono accumulate in quasi un secolo e mezzo sulla gitana di Siviglia, da quando Bizet aggiunse la seduttività di una musica presto diventata popolarissima al dissoluto romanzo di Mérimé di trent’anni prima. Brook, Godard… E già si attende la versione che ne darà Mario Martone fra pochi mesi, con Iaia Forte e Roberto De Francesco e l’Orchestra di Piazza Vittorio. È che sotto il velo dell’esotismo di una Spagna di maniera si compie un bel rovesciamento rispetto a un melodramma luogo per convenzione di passioni cieche. Carmen fa appello alla lucidità che serve per affrontare il rischio del sentimento. Si je t’aime, prends garde à toi…
Dada Masilo l’avevamo incontrata giovanissima, qualche anno fa, mentre con la sua danza teneva da sola il tempo di Refuse the hour, sezione teatrale di un più ampio progetto artistico di William Kentridge, tanto da prendere alla fine letteralmente sulle proprie spalle (lei all’apparenza così fragile) l’artefice che si era a lungo aggirato per la scena con il copione in mano. Oggi la danzatrice e coreografa sudafricana è un’artista internazionale, alla testa di un ampio ensemble, una «factory» della danza dice il nome della sua compagnia, e si confronta a suo modo anche con standard della tradizione ballettistica come Il lago dei cigni visto qui in un’altra occasione.
Personale è naturalmente anche la sua interpretazione di Carmen, che parte dalla cancellazione del libretto di Meihac e Halévy con tutto ciò che comporta da un punto di vista testuale – come un Don Giovanni senza il catalogo di Leporello. Ne resta un frammento della celebre habanera (e la voce non può che essere quella di Maria Callas), come a sollecitarne la nostalgia. Ma anche la musica di Bizet scolora nella novecentesca Carmen suite per archi e percussioni di Rodion Šcedrin, di per sé ballettistica, addomesticata a un fluido movimento dei corpi. E a un certo punto comparirà anche un brano di Arvo Pärt, con quel gocciolio di note di pianoforte a introdurre una sorta di lamento o di pausa meditativa dopo il momento di maggiore azzardo emotivo dello spettacolo.
Ma qui siamo già al finale di questa sorta di Carmen remix, all’acrobatico duello che oppone lo scamiciato Don Josè e il sinuoso toreador Escamillo armato del regolamentare capote,  l’uno  passionale e l’altro più romanticamente stilizzato, davanti a un immobile coro disposto a semicerchio come a simulare un’arena. Prima c’erano stati coinvolgenti momenti di ballo collettivi fra gli uomini tutti in nero e le donne in bellissimi costumi dai colori accesi, tante variazioni di un unico modello, con quella gonna che vola a ogni movimento quando non sono gli stessi interpreti a sollevarla (sono una quindicina i danzatori che accompagnano la protagonista). E l’abbandonarsi all’intimismo di passi a due conclusi però sempre con violenti distacchi, fra scontrosità e derisioni. E poi i fiori che volano, passi che ricordano il flamenco, improvvisi silenzi… Di una piacevolezza persino ingombrante. A cui ci si abbandona senza nemmeno il bisogno di star dietro al racconto.
Fino a quel momento lì, quando la coreografa sostituisce lo stupro alla rituale uccisione della donna. E qualcosa stride. (Per una coincidenza, è il terzo lavoro nel giro di pochi giorni che ci pone davanti agli occhi uno stupro, dalla Lucrezia di Angélica Liddell alla migrante di Belarus, ciò che sorprende è la diversità del modo).