Nel 1956-57 la Francia è in piena guerra d’Algeria e il giovane cineasta in erba Jean-Daniel Pollet (1936-2004) svolge il suo servizio militare nei servizi cinematografici dell’esercito. Le domeniche sono lunghe e decide di trascorrerle portando di nascosto cinepresa e pellicola fuori dalla caserma per filmare gli operai, molti di loro immigrati nordafricani, che ammazzano il tempo nei bar o danzano nei balli di paese. Sono corpi che il cinema di solito non mostra ma che convincono la giuria della Mostra di Venezia nel 1958: Pourvu qu’on ait l’ivresse…, tragicommedia dai toni realisti, ottiene il Leone d’Oro come miglior cortometraggio. Nasce così una carriera ma anche la collaborazione tra Pollet e l’attore Claude Melki: «Avevo una vecchia cinepresa e nessun operatore. Ho imparato a filmare e a fotografare di domenica in domenica. Un giorno, rivedendo le riprese ho notato Claude. Sono andato a cercarlo e gli ho parlato – come me si annoiava nei giorni festivi! – e da lui sono partito per inventare una storia di finzione sulla noia ambientata in questa cornice di balli domenicali», raccontò Pollet al periodico «Ecran».

Il film doveva essere un documentario d’osservazione ma si trasformò nell’occasione per ambientare le vicende di un personaggio-tipo in una cornice quasi antropologica, come fece Marcel Carné in Eldorado du dimanche (1929). Il sodalizio con Melki sarà longevo e darà luogo ad alcune commedie popolari quali L’amour c’est gai, l’amour c’est triste (1968), con la musa della Nouvelle Vague Bernadette Lafont, o L’Acrobate (1975), il cui «set» è una di quelle sale da ballo scoperte a Nogent durante le esplorazioni domenicali, ormai trasformata in bowling.
Pollet è un autore sorprendente di lungometraggi e corti spesso suddivisi dalla vulgata in due filoni che sembrano prendersi l’un l’altro in contropiede, la farsa dolce-amara della «saga Léon» con Melki e il documentario di riflessione, il film-essai. In realtà, la sua opera è molto più sfaccettata ma al tempo stesso è un tutt’uno che elabora un proprio linguaggio attraverso il movimento e il montaggio, che sviluppa uno stile peculiare, reinventando il cinema come poesia. Si pensi a titoli imprescindibili per definire la contemporaneità quali Méditerranée (1963), girato con Volker Schlöndorff lungo il perimetro del Mare Nostrum (riproposto in Italia grazie al Torino Film Festival Doc e ora reso disponibile gratuitamente sul canale Vimeo di La Traverse), e L’Ordre (1974), frutto di una collaborazione ricorrente con Philippe Sollers che in tempi di confinamento andrebbe visto e rivisto, o Dieu sait quoi (1993) che guarda con occhio attento alla poetica di Francis Ponge.


È la sensibilità formale che tiene insieme la complessità di quest’opera: «Jean-Daniel Pollet non si preoccupava di teorizzare questi due filoni – ha dichiarato recentemente ai microfoni di France culture Jean-Paul Fargier, critico, regista e collaboratore di Pollet – Era a suo agio in entrambi. Aveva un certo gusto per la ricerca intellettuale, le sue formule cinematografiche. Faceva ciò che Pasolini avrebbe chiamato cinema di poesia. Contrariamente al cinema di prosa, il cinema di poesia è quello la cui forma si vede, è messa in evidenza. In tutti i suoi film, Jean-Daniel Pollet mostra la ricerca di una forma e di un movimento».

Fargier è il vero autore dell’«autobiografia» postuma La vie retrouvée de Jean-Daniel Pollet uscita da poco per le Éditions de l’œil che hanno particolarmente a cuore l’opera del regista: Freddy Denaës le ha create a fine anni Novanta proprio per dare alle stampe un libro di Pollet e Gérard Leblanc, L’Entre Vues (1998), nato come intreccio di fotografie, meditazioni teoriche, poetiche e biografiche risalenti alla presentazione di Contretemps (1988) al festival di Pesaro. È recentissima anche l’uscita in Dvd della versione restaurata di Contretemps, che associa a un montaggio di immagini di suoi film le riflessioni a due voci di Philippe Sollers e Julia Kristeva sul tempo, il lavoro, la luce e il cinema. L’opera è accompagnata da un volume di documenti e testi tra cui quello scritto dal critico e regista Pascal Bonitzer durante la lavorazione del film.
L’oeil, che ha in catalogo numerosi altri film di Pollet, quest’estate aveva riunito in uno splendido cofanetto libro+Dvd i restauri di L’Ordre (1973), straordinario documentario realizzato su e con i lebbrosi greci segregati sull’isola di Spinalonga, Pour Mémoire (La Forge) (1978), sul rapporto tra umanità e fuoco attraverso il lavoro e i gesti degli operai di una fucina in procinto di chiudere, e Les Morutiers (1968), in cui il corpo a corpo con gli elementi è ancora una volta al centro della riflessione a partire dalle immagini dell’attività di un peschereccio in alto mare. Nel volume, si trovano vari documenti preparatori tra cui foto, appunti, lettere, nonché un saggio di Maurice Born e uno di Pierre Bergounioux.

E finalmente, lo sforzo appassionato che da anni conduce Gaël Teicher, distributore de La Traverse, nel restauro e nella diffusione di questi film, è sfociato, oltre che in queste preziose imprese editoriali, anche in una retrospettiva completa che dalla Cinémathèque Française (10-29 marzo) avrebbe dovuto viaggiare in altre cineteche e sale francesi ma che la situazione sanitaria ha costretto all’arresto pochi giorni dopo l’inaugurazione.
Teicher ci ha confidato: «La retrospettiva non è annullata, solo rimandata. Pollet merita di essere visto, scoperto, studiato perché la sua opera è troppo poco nota e questa invece è un’occasione unica di farla circolare. Tra l’altro il confinamento a cui ora siamo tutti costretti è stato uno dei suoi temi cari. Ha filmato sempre l’esclusione e l’inclusione, e persone costrette in qualche luogo isolato senza possibilità di fuga. La grandezza del suo stile è questa doppia traiettoria, questo movimento contraddittorio e quasi perpetuo da lui inventato, che da una parte è lineare e finisce per collidere contro un muro e dall’altra parte gira attorno al muro. Nel lavorare al progetto complessivo di restauro della sua opera, da diversi anni ormai a questa parte, abbiamo immaginato Pollet come un arcipelago, fatto da tante piccole isole, o almeno così appare nello sguardo dei cinefili, isole che però vanno riunite per ricostruire un continente. Pollet è un continente ma particolare, come Atlantide. Lui che amava tanto l’antica Grecia e la sua mitologia ha fatto riemergere Atlantide dal mare e grazie al suo sguardo si possono riscoprire le radici dell’Europa. Queste radici sono incredibilmente attuali oggi che ci troviamo a vivere le piaghe mitologiche o dell’Antico Testamento, le cavallette, le epidemie». In effetti, Pollet non ha mai smesso di tornare alla sua amata Grecia, fino alla fine, anche dopo l’incidente con un treno che lo aveva costretto alla sedia a rotelle. Sempre Teicher: «Ci sono pochi film al pari di Trois jours en Grèce (1990) sulla guerra del Golfo per raccontare con tanta precisione cos’è oggi il Medioriente. Forse un altro autore che ci riesce è Godard ma pochi altri. Il cinema di Pollet parla di fatti antichi che esistono ancora, come l’esclusione dei lebbrosi al centro di L’Ordre, è un cinema che non si usura con il tempo ma anzi si rinnova».