Memory Box inizia con le immagini di una nevicata che, come un prestigiatore, fa scomparire il paesaggio sotto il mantello. Siamo nel Quebec, la vigilia di Natale, una ragazza adolescente di nome Alex (Paloma Vauthier) scambia foto e commenti nel suo gruppo social. Tutti raccontano il proprio natale. Alex si appresta a festeggiarlo con la nonna Téta e la madre Maia (Rim Turki). Mentre preparano degli involtini di foglie di vite, qualcuno suona alla porta. È il postino, ha un pacco per Maia. Il pacco proviene dal Libano; contiene delle lettere, dei quaderni, delle foto e delle cassette che Maia, la quale durante la prima guerra del libano aveva l’età di Alex, inviava a una sua amica emigrata in Francia, per raccontarle il suo quotidiano tra le bombe. La nonna capisce immediatamente di che si tratta, protesta, sostiene contro ogni evidenza che il pacco non è per loro e vorrebbe rifiutarlo. Poi, arresasi, insiste per nasconderlo in cantina.

È un cinema profondamente politico, in un senso assai distante da quello che generalmente si intende con questa espressione. In quanto politico è al tempo stesso un cinema personale, familiare, scandalosamente intimo.

L’INTRODUZIONE ha la funzione di inscrivere la narrazione dentro una cornice di finzione, la storia di queste tre generazioni di donne libanesi, la nonna, la madre, la figlia. Nel pacco ovviamente c’è tutto il film di Joana Hadjithomas e Kalil Joreiges. E il problema ovviamente non è se è giusto aprirlo o meno – l’esistenza del film dà già la risposta. Ma piuttosto come. La questione della memoria è il tema centrale di tutto il lavoro che questa coppia di artisti ha sviluppato durante il corso degli anni sia con delle esposizioni, sia con dei film documentari e di finzione. In tutte le opere, la necessità di raccontare fa tutt’uno con l’idea di resistere alla cancellazione della storia. Questa opera di cancellazione è chiara là dove la guerra distrugge luoghi, cose e persone, così come chiaro è il dovere di opporvisi. Nel documentario Khiam (2000), per esempio, i due cineasti ricostruivano attraverso sei testimoni la vita di un campo di prigionia nel sud del Libano, prima che questo venisse distrutto e che la memoria di quella esperienza umana e politica venisse cancellata. Ma c’è un altro tipo di «eliminazione», meno violento ma per ciò stesso anche meno visibile. È il semplice scorrere del tempo e l’evolvere delle persone che, adattandosi a nuova vita dimenticano il passato e in un certo modo dimenticano se stessi. Sempre in Khiam, quello che lo spettatore osserva ascoltando la testimonianza dei sei sopravvissuti del campo è come essi siano cambiati, rispetto ai militanti comunisti che erano al tempo, alcuni portano il segno della loro conversione all’islam e hanno integrato le fila degli Hezbollah, altri invece sono diventati a-politici. Una problematica che nutre i personaggi della finzione di Memory Box. La figlia vuole conoscere il passato, che la scatola, come un’arca, contiene. La nonna vorrebbe solo dimenticare. La madre, che è l’alterego di Joana Hadjithomas – il film infatti si ispira liberamente alla sua vita, e al suo archivio di lettere – è il carattere più complesso del film. Non sa ancora cosa fare della scatola. Il suo problema è il più contorto: ha dimenticato di aver dimenticato.

LA QUALITÀ del film sta certo nell’aver trovato un punto di equilibrio emotivo tra la fizione e il documentario. In nessun momento la vicenda di Alex, di Téta e di Maia sembra accessoria. Non si tratta di una semplice cornice ma piuttosto di un punto di vista che ci permette di entrare nell’archivio di testi, immagini e suoni in maniera creativa. In questo, il film mette in scena la propria ideazione. Gli archivi infatti non sono quelli originali di Hadjithomas, ma sono a loro volta il frutto di una messa in scena costruita per la finzione. Questa libertà artistica non ci allontana dalla verità storica, ma al contrario rende vividi i documenti e ne prolunga il senso. Anche i documenti d’archivio infatti, sin dalla loro origine, non sono anonime registrazioni d’una realtà, ma un collage personale costituito di ricordi, di parole, di sentimenti, di canzoni e di pezzi di giornali, riviste e rotocalchi.
Osservando come da un lato Alex scopre la storia di Maia, e come dall’altro quest’ultima si riappropria del proprio passato, Memory Box diventa allora una sorta di gioioso autoritratto dell’artista da giovane. La prima lettera di Maia all’amica è una sorta di programma artistico: «ti giuro che ti scriverò ogni giorno, che fotograferò ogni cosa, come se tu fossi qui».
Che cosa vuol dire essere qui? Entrare in un film di Hadjithomas e Joreige significa ricevere quel pacco, come se ci fosse destinato, aprirlo e scoprire un passato come se fosse il nostro o quello di una persona che abbiamo amato. È un cinema profondamente politico, in un senso assai distante da quello che generalmente si intende con questa espressione. In quanto politico è al tempo stesso un cinema personale, familiare, scandalosamente intimo.