Racconta Hiroki Ryuchi che per girare questo film è stata indispensabile l’esperienza nel pink eiga, il porno softcore giapponese, specie per la velocità dell’esecuzione – « I pink eiga venivano realizzati in tre o quattro giorni al massimo, giravamo sempre nella stanza di un love hotel, dal momento che c’erano molte scene di sesso».

 

 

Tokyo Love Hotel (doppiaggio piuttosto improbabile) è stato realizzato in due settimane, quella dei pink del resto è stata una scuola importante per molti grandi registi del cinema giapponese pensiamo a Wakamatsu o a Zeze Takahisa. Questioni di tecnica, certo, ma soprattutto di allenamento dello sguardo a rovesciare un ordine narrativo da «buon costume» dentro una diversa liberalizzazione della sensibilità. Lo provano le immagini di sesso disperato e doloroso dei film di Wakamatsu, cronache della realtà e insieme sua scomposizione, racconto ininterrotto del Giappone che cercava la sua rivolta nello spazio (da conquistare) tra libertà e repressione.

 

 

Lo stesso accade in questo film, anche se il suo estremismo ha un’apparenza molto più soft, raccolta di storie che ruotano intorno a un albergo dell’amore a Tokyo, l’Atlas hotel, nel quale come suggerisce il nome, si racchiude un mondo e forse persino più di uno. Parallelo, invisibile, nascosto eppure coi suoi giri di soldi e sentimenti sfusi a prezzo di mercato, assai imponente anche al di fuori. Gli alberghi dell’amore sono il luogo preferito per poter avere rapporti sessuali di qualsiasi tipo e con qualsiasi persona, data la totale omissione di viso e dati anagrafici: infatti, una delle peculiarità di questi posti è l’alta considerazione della privacy, a tal punto che l’identità del cliente viene nascosta come quella dei dipendenti del locale.

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C’è chi lo gestisce per guadagnare come il giovane protagonista, lo fa senza dirlo alla fidanzata musicista in carriera – è la star e sempre più brava ex pop idol Atsuko Maeda. Davanti ai suoi occhi annoiati sfilano attrici porno, ragazzine in fuga dalla famiglia, escort, presunti talent scout, aspiranti artiste, amanti clandestini, clienti che si innamorano delle prostitute, potenziali assassini.

 

 

Si prostituisce la giovane donna coreana che vuole solo tornare a casa e aprire un negozio insieme alla madre. E quella coppia di vecchietti innocui che invece nascondono un segreto? Le storie si inseguono in una lunga notte nel quartiere a luci rosse della capitale giapponese di Kabukicho, ispirazione di tanto immaginario. Dentro all’albergo si replicano i rituali che il regista, esordi indipendenti e poi molta produzione mainstream, filma muovendo la macchina da presa con inquadrature «storte», spesso sporche, vicine ai corpi dei personaggi, al sesso e alla loro malinconica indifferenza. Mescolando generi, suggestioni pop con un compiacimento a volte un po’ stucchevole per il proprio «stile» – che non riflette uguale impatto di deflagrazione – Hiroki Ryuchi segue i suoi personaggi in situazioni ironiche, a volte esilaranti che nascondono ripetuti interrogativi sulle contraddizioni della natura umana.

 

 

Lì, in quelle stanze che tutti possono scegliere sui monitor colorati, assaporando la dolcezza del cioccolatino della buonanotte, prende forma il sentimento reale della società giapponese, la paura, il peso della crisi economica, delle imposizioni sociali che obbligano alla bugia e ai sotterfugi, di un futuro che appare sempre più incerto.
Tutto scivola nell’ambiguità, peccato e redenzione – il ragazzo scopre che anche la sorellina fa film porno perché la famiglia è finita in miseria dopo lo tsunami. – i rapporti si confondono nella lotta disperata dei personaggi per sopravvivere. L’amore nel Tokyo Hotel può raccontare  molte cose.